domenica 27 marzo 2011



L'insabbiamento culturale della "Questione Meridionale"

Molti storici in epoca moderna hanno fatto luce sugli eventi che hanno caratterizzato l'unità d'Italia dimostrando, con certezza, che la cultura di "regime" stese, dai primi anni dell'unità, un velo pietoso sulle vicende "risorgimentali" e sul loro reale evolversi.

Tutte le forme d'influenza sulla pubblica opinione furono messe in opera, per impedire che la sconfitta dei Borboni o la rivolta del popolo meridionale si colorasse di toni positivi.

Si cercò di rendere patetica e ridicola la figura di Francesco II - il "Franceschiello" della vulgata – arrivando alla volgarità di far fare dei fotomontaggi della Regina Maria Sofia in pose pornografiche, che furono spediti a tutti i governi d'Europa e a Francesco II stesso, il quale, figlio di una "santa" e allevato dai preti, con ogni probabilità non aveva mai visto sua moglie nuda nemmeno dal vivo. Risultò, in seguito, che i fotomontaggi erano stati eseguiti da una coppia di fotografi di dubbia fama, tali Diotallevi, che confessarono di aver agito su commissione del Comitato Nazionale; la vicenda suscitò scalpore e, benché falsa, servì allo scopo di incrinare la reputazione dei due sovrani in esilio.

La memoria di Re Ferdinando II, padre di Francesco, fu infangata da accuse di brutalità e ferocia: gli fu scritto dal Gladstone – interessatamente - d'essere stato - lui cattolicissimo - "la negazione di Dio".

Soprattutto si minimizzò l'entità della ribellione che infiammava tutto il l'ex Regno di Napoli, riducendolo a "volgare brigantaggio", come si legge nei giornali dell'epoca (giornali, peraltro, pubblicati solo al nord in quanto la libertà di stampa fu abolita al sud fino al 31 dicembre 1865); nasce così la leggenda risorgimentale della "cattiveria" dei Borboni contrapposta alla "bontà" dei piemontesi e dei Savoia che riempirà le pagine dei libri scolastici.

Restano a chiarire le motivazioni che hanno indotto gli ambienti accademici del Regno d'Italia prima, del periodo fascista e della Repubblica poi, a mantenere fin quasi ai giorni nostri, una versione dei fatti così lontana dalla verità.

A mio parere le ragioni sono composite, ma riconducibili ad un concetto che il D'Azeglio enunciò nel secolo scorso "Abbiamo fatto l'Italia, adesso bisogna fare gli Italiani", e possono essere esemplificate nel seguente modo:

a. Il mondo della cultura post-unitaria si adoperò per sradicare dalla coscienza e dalla memoria di quelle popolazioni che dovevano diventare italiane, il modo piratesco e cruentisissimo con il quale l'unità si ottenne, ammantando di leggende "l'eroico" operato dei Garibaldini (che sarebbero stati, nonostante tutto, schiacciati prima o poi dall'esercito borbonico), sminuendo il fatto che la reale conquista del meridione fu ottenuta, in realtà, dall'esercito piemontese, attraverso le vicende della guerra civile - nonostante la formale annessione al Regno di Piemonte - e tacendo, soprattutto, la circostanza che le popolazioni del sud, salvo una minoranza di latifondisti ed intellettuali, non avevano nessuna voglia di essere "liberate" e anzi reagirono violentemente contro coloro i quali, a ragione, erano considerati invasori.
Per contro si diede della deposta monarchia borbone un'immagine traviata e distorta, e del '700 e '800 napoletano la visione, bugiarda, di un periodo sinistro d'oppressione e miseria dal quale le genti del sud si emanciperanno, finalmente, con l'unità, liberate dai garibaldini e dai piemontesi dalla schiavitù dello "straniero".

b. Il Ministero della Pubblica Istruzione e della cultura popolare del periodo fascista, proteso com'era al perseguimento di valori nazionalistici e legato a filo doppio alla dinastia Savoia, non ebbe, per ovvi motivi, nessuna voglia di tipo "revisionista", riconducendo anzi l'origine della nazione al periodo romano e saltando a piè pari un millennio di storia meridionale. Il governo fascista ebbe l'indiscutibile merito di cercare di innescare un meccanismo di recupero economico della realtà meridionale, ma da un punto di vista storico insabbiò ancor di più la questione meridionale, ritenendola inutile e dannosa nell'impianto culturale del regime.

c. La Repubblica Italiana, nel dopoguerra, mantenne intatto, in sostanza, l'impianto di pubblica istruzione del periodo fascista.

La nazione emergeva, non bisogna dimenticarlo, da una guerra civile, nella quale le fazioni in lotta avevano, con la Repubblica di Salò, diviso in due l'Italia, il movimento indipendentista siciliano era in piena agitazione (erano gli anni delle imprese di Salvatore Giuliano), non era certamente il momento di sollevare dubbi sulla veridicità della storia risorgimentale e alimentare così tesi separatiste.

Si è arrivati in questo modo ai giorni nostri, dove ancora adesso, in molti libri scolastici, la storia d'Italia e del meridione in particolare è vergognosamente mistificata.

In campo economico la visione che si dette del Regno delle due Sicilie fu, se possibile, ancora più lontana dalla realtà effettuale.

Il Sud borbonico, come ci riporta Nicola Zitara era: "Un paese strutturato economicamente sulle sue dimensioni. Essendo, a quel tempo, gli scambi con l'estero facilitati dal fatto che nel settore delle produzioni mediterranee il paese meridionale era il piú avanzato al mondo, saggiamente i Borbone avevano scelto di trarre tutto il profitto possibile dai doni elargiti dalla natura e di proteggere la manifattura dalla concorrenza straniera. Il consistente surplus della bilancia commerciale permetteva il finanziamento d'industrie, le quali, erano sufficientemente grandi e diffuse, sebbene ancora non perfette e con una capacità di proiettarsi sul mercato internazionale limitata, come, d'altra parte, tutta l'industria italiana del tempo (e dei successivi cento anni). (...) Il Paese era pago di sé, alieno da ogni forma di espansionismo territoriale e coloniale. La sua evoluzione economica era lenta, ma sicura. Chi reggeva lo Stato era contrario alle scommesse politiche e preferiva misurare la crescita in relazione all'occupazione delle classi popolari. Nel sistema napoletano, la borghesia degli affari non era la classe egemone, a cui gli interessi generali erano ottusamente sacrificati, come nel Regno sardo, ma era una classe al servizio dell'economia nazionale".

In realtà il problema centrale dell'intera vicenda è che nel 1860 l'Italia si fece, ma si fece malissimo. Al di là delle orribili stragi che l'unità apportò, le genti del Sud patiscono ancora ed in maniera evidentissima i guasti di un processo di unificazione politica dell'Italia che fu attuato senza tenere in minimo conto le diversità, le esigenze economiche e le aspirazioni delle popolazioni che venivano aggregate.

La formula del "piemontismo", vale a dire della mera e pedissequa estensione degli ordinamenti giuridici ed economici del Regno di Piemonte all'intero territorio italiano, che fu adottata dal governo, e i provvedimenti "rapina" che si fecero ai danni dell'erario del Regno di Napoli, determinarono un'immediata e disastrosa crisi del sistema sociale ed economico nei territori dell'ex Regno di Napoli e il suo irreversibile collasso.

D'altronde le motivazioni politiche che avevano portato all'unità erano – come sempre accade – in subordine rispetto a quelle economiche.

Se si parte dall'assunto, ampiamente dimostrato, che lo stato finanziario del meridione era ben solido nel 1860, si comprendono meglio i meccanismi che hanno innescato la sua rovina.

Nel quadro della politica liberista impostata da Cavour, il paese meridionale, con i suoi quasi nove milioni di abitanti, con il suo notevole risparmio, con le sue entrate in valuta estera, appariva un boccone prelibato.

L'abnorme debito pubblico dello stato piemontese procurato dalla politica bellicosa ed espansionista del Cavour (tre guerre in dieci anni!) doveva essere risanato e la bramosia della classe borghese piemontese per la quale le guerre si erano fatte (e alla quale il Cavour stesso apparteneva a pieno titolo) doveva essere, in qualche modo, soddisfatta.

Descrivere vicende economiche e legate al mondo delle banche e della finanza, può risultare al lettore, me ne rendo conto, noioso, ma non è possibile comprendere alcune vicende se ne conoscono le intime implicazioni.

Lo stato sabaudo si era dotato di un sistema monetario che prevedeva l'emissione di carta moneta mentre il sistema borbonico emetteva solo monete d'oro e d'argento insieme alle cosiddette "fedi di credito" e alle "polizze notate" alle quali però corrispondeva l'esatto controvalore in oro versato nelle casse del Banco delle Due Sicilie.

Il problema piemontese consisteva nel mancato rispetto della "convertibilità" della propria moneta, vale a dire che per ogni lira di carta piemontese non corrispondeva un equivalente valore in oro versato presso l'istituto bancario emittente, ciò dovuto alla folle politica di spesa per gli armamenti dello stato.

In parole povere la valuta piemontese era carta straccia, mentre quella napolitana era solidissima e convertibile per sua propria natura (una moneta borbonica doveva il suo valore a se stessa in quanto la quantità d'oro o d'argento in essa contenuta aveva valore pressoché uguale a quello nominale).

Quindi cita ancora lo Zitara: "Senza il saccheggio del risparmio storico del paese borbonico, l'Italia sabauda non avrebbe avuto un avvenire. Sulla stessa risorsa faceva assegnamento la Banca Nazionale degli Stati Sardi. La montagna di denaro circolante al Sud avrebbe fornito cinquecento milioni di monete d'oro e d'argento, una massa imponente da destinare a riserva, su cui la banca d'emissione sarda - che in quel momento ne aveva soltanto per cento milioni - avrebbe potuto costruire un castello di cartamoneta bancaria alto tre miliardi. Come il Diavolo, Bombrini, Bastogi e Balduino (titolari e fondatori della banca, che sarebbe poi divenuta Banca d'Italia) non tessevano e non filavano, eppure avevano messo su bottega per vendere lana. Insomma, per i piemontesi, il saccheggio del Sud era l'unica risposta a portata di mano, per tentare di superare i guai in cui s'erano messi".

A seguito dell'occupazione piemontese fu immediatamente impedito al Banco delle Due Sicilie (diviso poi in Banco di Napoli e Banco di Sicilia) di rastrellare dal mercato le proprie monete per trasformarle in carta moneta così come previsto dall'ordinamento piemontese, poiché in tal modo i banchi avrebbero potuto emettere carta moneta per un valore di 1200 milioni e avrebbero potuto controllare tutto il mercato finanziario italiano (benché ai due banchi fu consentito di emettere carta moneta ancora per qualche anno). Quell'oro, invece, attraverso apposite manovre passò nelle casse piemontesi.

Tuttavia nella riserva della nuova Banca d'Italia, non risultò esserci tutto l'oro incamerato (si vedano a proposito gli Atti Parlamentari dell'epoca).

Evidentemente parte di questo aveva preso altre vie, che per la maggior parte furono quelle della costituzione e finanziamento di imprese al nord operato da nuove banche del nord che avrebbero investito al nord, ma con gli enormi capitali rastrellati al sud.

Ancora adesso, a ben vedere, il sistema creditizio del meridione risente dell'impostazione che allora si diede. Gli istituti di credito adottano ancora oggi politiche ben diverse fra il nord ed il sud, effettuando la raccolta del risparmio nel meridione e gli investimenti nel settentrione.

Il colpo di grazia all'economia del sud fu dato sommando il debito pubblico piemontese, enorme nel 1859 (lo stato più indebitato d'Europa), all'irrilevante debito pubblico del Regno delle due Sicilie, dotato di un sistema di finanza pubblica che forse rigidamente poco investiva, ma che pochissimo prelevava dalle tasche dei propri sudditi. Il risultato fu che le popolazioni e le imprese del Sud, dovettero sopportare una pressione fiscale enorme, sia per pagare i debiti contratti dal governo Savoia nel periodo preunitario (anche quelli per comprare quei cannoni a canna rigata che permisero la vittoria sull'esercito borbonico), sia i debiti che il governo italiano contrarrà a seguire: esso in una folle corsa all''armamento, caratterizzato da scandali e corruzione, diventò, con i suoi titoli di stato, lo zimbello delle piazze economiche d'Europa.

Scrive ancora lo storico Zitara: "La retorica unitaria, che coprì interessi particolari, non deve trarre in inganno. Le scelte innovative adottate da Cavour, quando furono imposte all'intera Italia, si erano già rivelate fallimentari in Piemonte. A voler insistere su quella strada fu il cinismo politico di Cavour e dei suoi successori, l'uno e gli altri più uomini di banca che veri patrioti. Una modificazione di rotta sarebbe equivalsa a un'autosconfessione. Quando, alle fine, quelle "innovazioni", vennero imposte anche al Sud, ebbero la funzione di un cappio al collo.

Bastò qualche mese perché le articolazioni manifatturiere del paese, che non avevano bisogno di ulteriori allargamenti di mercato per ben funzionare, venissero soffocate.

L'agricoltura, che alimentava il commercio estero, una volta liberata dei vincoli che i Borbone imponevano all'esportazione delle derrate di largo consumo popolare, registrò una crescita smodata e incontrollabile e ci vollero ben venti anni perché i governi sabaudi arrivassero a prostrarla. Da subito, lo Stato unitario fu il peggior nemico che il Sud avesse mai avuto; peggio degli angioini, degli aragonesi, degli spagnoli, degli austriaci, dei francesi, sia i rivoluzionari che gli imperiali".

Per contro una politica di sviluppo, fra mille errori e disastri economici epocali (basti pensare al fallimento della Banca Romana, principale finanziatrice dello stato unitario o allo scandalo Bastogi per l'assegnazione delle commesse ferroviarie), fu attuata solo al Nord mentre il Sud finì per pagare sia le spese della guerra d'annessione, sia i costi divenuti astronomici dell'ammodernamento del settentrione.

Il governo di Torino adottò nei confronti dell'ex Regno di Napoli una politica di mero sfruttamento di tipo "colonialista" tanto da far esclamare al deputato Francesco Noto nella seduta parlamentare del 20 novembre 1861: "Questa è invasione non unione, non annessione! Questo è voler sfruttare la nostra terra come conquista. Il governo di Piemonte vuol trattare le province meridionali come il Cortez ed il Pizarro facevano nel Perú e nel Messico, come gli inglesi nel regno del Bengala".

La politica dissennatamente liberistica del governo unitario portò, peraltro, la neonata e debolissima economia dell'Italia unita a un crack finanziario.

Le grandi società d'affari francesi ed inglesi fecero invece, attraverso i loro mediatori piemontesi, affari d'oro.

Nel 1866, nonostante il considerevole apporto aureo delle banche del sud, la moneta italiana fu costretta al "corso forzoso" cioè fu considerata dalle piazze finanziarie inconvertibile in oro. Segno inequivocabile di uno stato delle finanze disastroso e di un'inflazione stellare. I titoli di stato italiani arrivarono a valere due terzi del valore nominale, quando quelli emessi dal governo borbonico avevano un rendimento medio del 18%.

Ci vorranno molti decenni perché l'Italia postunitaria, dal punto di vista economico, possa riconquistare una qualche credibilità.

L'odierna arretratezza economica del Meridione è figlia di quelle scelte scellerate e di almeno un cinquantennio di politica economica dissennata e assolutamente dimentica dell'ex Regno di Napoli da parte dello stato unitario.

Si dovrà aspettare il periodo fascista per vedere intrapresa una qualche politica di sviluppo del Meridione con un intervento strutturale sul suo territorio attraverso la costruzione di strade, scuole, acquedotti (quello pugliese su tutti), distillerie ed opifici, la ripresa di una politica di bonifica dei fondi agricoli, il completamento di alcune linee ferroviarie come la Foggia-Capo di Leuca, - iniziata da Ferdinando II di Borbone, dimenticata dai governi sabaudi e finalmente terminata da quello fascista.

Ma il danni e i disastri erano già fatti: una vera economia nel sud non esisteva più e le sue forze più giovani e migliori erano emigrate all'estero.

Nonostante gli interventi negli anni '50 del XX secolo con il piano Marshall (peraltro con nuove sperequazioni tra nord e sud), '60 e '70 con la Cassa per il Mezzogiorno e l'aiuto economico dell'Unione Europea ai giorni nostri, il divario che separa il Sud dal resto d'Italia è ancora notevole.

La popolazione dell'ex Regno di Napoli, falcidiata dagli eccidi del periodo del "brigantaggio", stremata da anni di guerra, di devastazioni e nefandezze d'ogni genere, per sopravvivere, darà vita alla grandiosa emigrazione transoceanica degli ultimi decenni dell''800, che continuerà, con una breve inversione di tendenza nel periodo fascista e una diversificazione delle mete che diventeranno il Belgio, la Germania, la Svizzera, fin quasi ai giorni nostri.

Il Sud pagherà, ancora una volta, con il flusso finanziario generato dal lavoro e dal sacrificio degli emigranti meridionali, lo sviluppo dell'Italia industriale.

Ritengo, in conclusione, che sia un diritto delle gente meridionale riappropriarsi di quel pezzo di storia patria che dopo il 1860 le fu strappato e un dovere del corpo insegnanti dello stato favorire un'analisi storica più oggettiva di quei fatti che tanto peso hanno avuto ed hanno ancora nello sviluppo sociale del Paese, anche attraverso una scelta dei testi scolastici più oculata ed imparziale.

La guerra fra il nord ed il sud d'Italia non si combatte più sui campi di battaglia del Volturno, del Garigliano, sugli spalti di Gaeta o nelle campagne infestate dai "briganti", ma non per questo è meno viva; continua ancora oggi sul terreno di una cultura storica retriva e bugiarda che, alimentando una visione del sud "geneticamente" arretrato, produce un'ulteriore frattura tra due "etnie" che non si sono amate mai.

Il dibattito ancora aperto e vivace sull'ipotesi di una Italia federalista, i toni accesi del Partito della Lega Nord, una certa avversione, subdola ma reale, tra la gente del nord e quella del sud, nonostante il "rimescolamento" dovuto all'emigrazione interna, testimoniano quanto queste problematiche, nate nel 1860, siano ancora attualissime.

Oggi l'unità dello stato, in un periodo dove il progresso passa attraverso enti politico-economici sopranazionali come la Comunità Europea, è certamente un valore da salvaguardare, ma al meridione è dovuta una politica ed una attenzione particolari, una politica legata ai suoi effettivi interessi, che valorizzi le sue enormi risorse e assecondi le sue vocazioni, a parziale indennizzo dei disastri e delle ingiustizie che l'unità vi ha apportato.

L'enorme numero di morti che costò l'annessione, i 23 milioni di emigrati dal meridione dell'ultimo secolo, che hanno sommamente contribuito, a costo di immani sforzi, alla realizzazione di un'Italia moderna e vivibile, meritano quel concreto riconoscimento e quel rispetto che per 150 anni lo Stato, attraverso una cultura storica mendace, gli ha negato e che oggi gli eredi della Nazione Napoletana reclamano.

di CARLO COPPOLA
"Controstoria dell'Unità d'Italia"
M.C.E. Editore

Fonte: Cronologia Leonardo

mercoledì 23 marzo 2011



Lampedusa vuole l'indipendenza

Riporto solo una parte dell'articolo.

LAMPEDUSA - L’isola che non ne può più si raccoglie sul molo commerciale dove da una nave militare con un cannone a prua e un elicottero a poppa sbarcano 129 tunisini salvati in alto mare. Ma il tempo della compassione, della comprensione, della solidarietà per molti abitanti di questo scoglio più vicino all’Africa che alla Sicilia sembra essersi consumato. Ed esplodono invettive, parolacce addirittura minacce di pescatori, albergatori, semplici casalinghe, giovani e anziani, arrivati qui per la motonave bloccata dal mare cattivo a Porto Empedocle, rimasti senza merce per negozi e attività, ma immersi fra centinaia di immigrati che continuano a sbarcare e tanti altri sgattaiolati fuori dal Centro accoglienza dove, con gli ultimi 25 approdi, si sfiora quota 3.000 unità. Una cifra con alti rischi. Un limite esplosivo. Dentro e fuori la ex caserma costruita per ospitare 850 migranti. Come prova anche la reazione di tanti isolani pronti ad applaudire, lì sul molo, davanti alle telecamere di Tv francesi, tedesche, olandesi, il titolare di un residence non appena invoca a squarciagola «l’indipendenza di Lampedusa dall’Italia e dall’Europa»: «Vogliamo amministrarci da soli visto che tutti ci lasciano soli». E gli fa eco un collega, quasi azzannando zoom e microfoni, rovesciando la rabbia anche contro una cronista cinese che traballa su se stessa: «Qua scorrerà sangue fino all’Oceano Indiano...».

«MEGLIO ESSERE COME MALTA» - Difficile archiviare come semplici sfoghi queste sfuriate che non hanno di mira i nordafricani, ma le autorità, gli uomini politici, il governo e sempre più spesso i giornalisti, «colpevoli» di rappresentare una Lampedusa invasa dai clandestini, dando così un’immagine che scoraggia i turisti e moltiplica le disdette non solo per Pasqua ma anche per la già compromessa stagione estiva. Si moltiplicano voci che non possono non essere registrate: «Si arricchiscono tutti sulle spalle dei lampedusani... Noi siamo preoccupati da noi stessi perché quando esplode la rabbia di un popolo la reazione non è pacata, controllata, intelligente... Se soli ci lasciano, meglio l’indipendenza, come Malta. Ma dovete uscire fuori tutti dai c...». Volano parole grosse. E qualche spintone. Come è accaduto al cronista di una Tv privata di Agrigento che voleva riprendere una riunione di albergatori. «Mi cacciate via? Ma io passo i servizi a tanti reti Tv, ho investito 30 mila euro nei mezzi...». Se l’è vista brutta. «E tu investi sulle nostre disgrazie?».

Fonte: L'isola assediata che vuole l'indipendenza

venerdì 18 marzo 2011



150 anni di occupazione

In occasione dei 150 anni di occupazione del Regno delle Due Sicilie pubblico una serie di articoli tratti da facebook.

Fonte: L'italia è una creazione di Rothschild
150 ANNI DI DITTATURA ROTHSCHILD


Fonte: Per i banchieri dei re un'avventura di quattro secoli
PER I BANCHIERI DEI RE UN' AVVENTURA DI QUATTRO SECOLI

Roma IL LORO nome è il simbolo proverbiale della ricchezza, indissolubilmente attaccato alla storia della finanza europea del diciannovesimo secolo. La loro famiglia è una delle più amate e delle più odiate, sempre agli oneri delle cronache, mondane e non. Sono famosi per la loro ricchezza, per il potere esercitato per oltre un secolo sui governi di mezza Europa, per il loro snobismo coniugato con il mecenatismo e le opere di beneficenza. Sono i Rothschild, la dinastia di banchieri che ha segnato la storia economico-finanziaria del Vecchio Continente, da quasi due secoli alla ribalta, avversati o coccolati a seconda delle visissitudini politiche. All' origine del loro nome, c' è un nomignolo. "Rotschild" (lo scudo rosso), dall' insegna che sovrastava l' ingresso della casa di Francoforte abitata fin dal lontano 1563. Una famiglia delle tante che abitavano la Judengasse, il ghetto ebraico della città tedesca, e che sbarcavano il lunario con modeste attività commerciali. A metà del Settecento i Rothschild erano ancora rigattieri, ma negli anni precedenti la Rivoluzione francese cominciarono l' attività di cambiavaluta, primo passo verso la costruzione della loro immensa fortuna. Ad imprimere una svolta nella storia della famiglia è Mayer Amschel, nato nel 1744, padre di dieci figli, cinque maschi e cinque femmine. Nel ghetto i Rothschild sono soggetti a tutti i divieti legali che colpiscono gli ebrei, costretti nel campo del commercio al minuto, e il vecchio Mayer-Amschel, dotato di un talento finanziario "ante-litteram", cominciò ad arricchirsi grazie ai prestiti e al commercio di merci varie. Ma il suo colpo di genio lo ebbe spedendo i cinque figli maschi (Amschel Mayer, Salomon, Nathan, Carl e Jacob, detto James) nei centri più importanti del continente: Parigi, Londra, Vienna e Napoli. Una scelta decisiva: al momento dello scoppio delle guerre napoleoniche i Rothschild erano installati nei centri nevralgici e soprattutto facevano valere le loro relazioni privilegiate con nobili e sovrani, allacciate già da molto tempo dal vecchio Mayer Amschel. Fu così che iniziò l' accumulazione di un patrimonio tra i più grandi di quel tempo. Mentre Napoleone sui campi di battaglia passava alternativamente dagli altari alla polvere, i Rothschild tessevano la loro tela antinapoleonica nelle capitali d' Europa, anticipando sul terreno economico-finanziario la sconfitta di Waterloo. Grazie a questa strategia i Rothschild si ritrovano ad essere i banchieri della Santa Alleanza, frequentano re e imperatori e la loro origine ebraica non gli impedirà nemmeno di servire in più di un' occasione lo Stato pontificio (Karl, che lavorara a Napoli, venne ricevuto da Gregorio XVI). Con rapidità fulminea la famiglia divenne una delle più potenti e questo grazie ad una peuliarità che la distingueva dalle altre: i Rothschild non lavoravano in una sola città, avevano filiali dappertutto, le loro speculazioni e i loro affari si sviluppavano su scala europea. Se a ciò si aggiunge un' unità familiare mai incrinata e un accanimento senza pari nel combattere i rivali, si capisce come i Rothschild siano riusciti a diventare i "re" dell' alta banca dell' Ottocento. Il loro asso nella manica fu l' organizzazione dei corrieri, una rete per trasportare lettere e valori tra le cinque sedi dove operavano con una velocità eccezionale per quei tempi. In questo modo i Rothschild erano al corrente dei principali avvenimenti in anticipo sui concorrenti, speculando a piacimento. Ma la loro organizzazione era tale che riuscivano ad essere informati prima degli stessi regnanti. In una lettera alla sorella di Luigi Filippo, Talleyrand, allora ambasciatore a Londra, scrive il 15 ottobre 1830: "Il ministero britannico è sempre messo al corrente di tutto da Rothschild da dieci a dodici ore prima dei dispacci di Lord Stuart (l' ambasciatore a Parigi, n.d.r.). Le loro navi non imbarcano passeggeri e salpano con qualsiasi tempo". I Rothschild non si fanno scrupoli, combattono senza mezze misure chi minaccia di intaccare il loro potere e non si lasciano fermare nemmeno dalle guerre, anzi. Le loro capacità sono tali che riescono ad essere al contempo i banchieri di Cavour e di Metternich e la loro spregiudicatezza è pari alla loro abilità: "Come i bambini - scrisse Balzac - le dinastie ai loro inizi hanno i panni sporchi". Il vero capo della famiglia, dopo la morte di Mayer Amschel, divenne James, capostipite del ramo francese, il più potente e il più ramificato. La sua attività è frenetica: fonda la Banca di Francia, ma soprattutto non si lascia sfuggire la grande opportunità che gli offre la sconfitta di Napoleone e l' avvento della Restaurazione: gli ingenti prestiti che il governo francese è costretto a lanciare per poter pagare le indennità di guerra e il mantenimento degli eserciti di occupazione. James riuscirà a sopravvivere a tutti i regimi, da quello borbonico a quello orleanista, dalla effimera repubblica del ' 48 al Secondo Impero, e nel 1840 si lancerà con successo nell' avventura delle ferrovie, il "business" per eccellenza di quegli anni. E' il periodo in cui James affascina intellettuali e letterati. Heinrich Heine, in esilio a Parigi, scrive: "Il Denaro è il Dio della nostra epoca e Rothschild è il suo profeta". Per Heine James era un uomo "d' intelletto superiore" dal quale si sprigionava "qualcosa di così concreto, di così positivo, di così assoluto, da lasciar credere che nelle sue tasche colasse tutto il denaro del mondo". Ma James ispira più di uno scrittore: Balzac, Stendhal, Zola si rifaranno a lui per alcuni personaggi, Michelet e Feydeau ne lasceranno memorabili ritratti. Ad accrescere il fascino di James contribuiva certamente il suo mecenatismo, una caratteristica che ancor oggi contraddistingue la famiglia, e che si concretizzaava nel mantenere Mayerbeer, negli aiuti a Heine e Berlioz, nei prestiti a Balzac, nel collezionare opere d,arte. Accanto al mecenatismo il pacifismo. I Rothschild se l' erano sbrogliata bene con le guerre che affliggevano il Vecchio Continente, i loro affari non ne avevano risentito, anzi ne erano usciti rafforzati. Ma nelle cancellerie d' Europa tutti sapevano che la famiglia non finanziava guerre, a nessun costo: "Sebbene non sia in nostro potere evitare un conflitto - scrisse James nel 1860 - non avervi contribuito è uno sgravio per le nostre coscienze". Infine, James non dimenticò mai le sue origini e sostenne sempre le organizzazioni ebrache, rifiutò di naturalizzarsi e i suoi discendenti fecero altrettanto: le prime colonie agricole ebree in Palestina (tra il 1882 e il 1886) furono create grazie ai soldi dei Rothschild e uno di loro è ancor oggi alla guida della maggiore organizzazione ebraica francese. In pratica, James trasmise ai suoi discendenti, oltre al titolo di barone, tutte le caratteristiche che ancor oggi li contraddistinguono e che piano piano anche il ramo inglese andò assumendo: Lionel fu il primo ebreo inglese ad entrare alla Camera dei Comuni e suo figlio Mathaniel Mayer il primo Lord di origine israelita. La dinastia, però, non ritroverà più gli splendori e il potere dell' era di James. Con l' avvento del XX secolo i Rothschild cominciano a perdere parte della loro influenza. "Capitalisti per la sinistra, ebrei per la destra" - come loro stessi si autodefiniscono con un misto di ironia e di autocommiserazione - subiranno i colpi delle alterne vicende politiche francesi. Nel 1936 Lèon Blum porta al governo il Fronte popolare con l' obiettivo dichiarato di sconfiggere la grande borghesia d' Oltralpe, quella che Blum identificò - con un' espressione rimasta nel vocabolario della "gauche" fino a pochi anni orsono - nelle "duecento famiglie". Il fortunato slogan venne coniato da Blum per la particolarità dello statuto della Banca di Francia, allora privata, i cui azionisti erano i duecento principali banchieri e industriali del paese. Il reggente (per diritto ereditario!) era, manco a dirlo, un Rothschild. Il Fronte popolare rese pubblica la banca centrale e parallelamente nazionalizzò le ferrovie e quindi anche la "Compagnie du chemin de fer du Nord" che James aveva fondato quasi cento anni prima. Intanto in Germania il nome dei Rothschild veniva utilizzato dai nazisti per la loro campagna di sterminio degli ebrei. Poco dopo il regime di Vichy confiscò i beni della famiglia e privò i suoi membri della nazionalità: "Il nostro crimine - ha scritto il barone Guy nelle sue memorie - fu quello di rifuggiarci in America per sfuggire l' avanzata tedesca invece di presentarci volontari per i forni crematori". Nell' immediato dopoguerra sarà il generale De Gaulle a ridurre il potere della famiglia, nazionalizzando l' energia elettrica e le tre più grandi compagnie di assicurazioni, due settori in cui i Rothschild erano presenti. Infine, sarà Mitterrand a dare un altro durissimo colpo al mito: all' inizio del 1982 la Banca Rothschild, la "casa di famiglia" della rue Laffitte dove James si era insediato nel 1821, passa nelle mani dello Stato francese. A chi gli ricordava il corretto indennizzo versato agli azionisti il barone Guy rispose seccato: "I soldi non sono tutto. Non siamo mai stati in vendita". E' stato questo l' ultimo capitolo di una storia ancora lungi dall' essere conclusa e che ha contrassegnato, oltre alle cronache finanziarie, anche quelle mondane e "rosa". Proprietari di scuderie e di vigneti in cui si producono vini di primissima qualità, frequentatori del bel mondo, snob a tutti i costi i Rothschild hanno fatto la fortuna di alcuni luoghi di villeggiatura per il solo motivo di averli frequentati e di averli eletti a loro dimora per le ore di svago. Deauville, Biarritz, Saint Tropez devono ai Rothschild il loro successo, come Forte dei Marmi lo deve agli Agnelli. Non stupisce quindi che i cronisti di "rosa" si gettino sulle storie di casa Rothschild non appena se ne presenti l' occasione. L' esempio più clamoroso è quello delle seconde nozze di Edmond. Il barone s' innamorò perdutamente della cantante di un night-club, Nadine Lhpitalier, figlia di padre ignoto e di madre operaia, chiese e ottenne il divorzio dalla prima moglie e la sposò, portandola nella sua casa parigina provvista di piscina, palestra e sala cinematografica con cinquanta posti. Un modo, certo involontario, per dimostrare che i Rothschild possono far diventare realtà anche la fiaba di Cenerentola. - di GIAMPIERO MARTINOTTI


Fonte: Il Vaticano allo sportello della banca Rothschild
Il Vaticano allo sportello della banca Rothschild

Leggendo Le finanze pontificie e i Rothschild di Daniela Felisini sorge e si rafforza in modo sempre più chiaro il sospetto che tra la finanza pontificia dell'800 e la finanza italiana dei nostri anni i punti di contatto siano molti e significativi.
La causa del dissesto delle finanze vaticane nell'800 è, in ultima analisi, da ricercare nell'incapacità dello Stato pontificio di partecipare al profondo processo di modernizzazione che investì la società e l'economia italiana ed europea dopo il '48.
I violenti traumi subiti dallo Stato pontificio nel 1831 e nel 1848 furono occasioni mancate per un' approfondita riflessione sui mali economici che stavano conducendo il potere temporale dei papi verso l'inevitabile declino. Il governo pontificio rimase agganciato a un modello amministrativo inadeguato, respingendo le istanze delle classi medie, specie quelle delle regioni più progredite del Nord, insoddisfatte per l' opprimente sistema fiscale e doganale. La mancanza di un consenso profondo spinse i governanti pontifici a tessere una vasta rete clientelare, in particolare al Sud, rafforzando la tradizionale struttura assistenziale, con funzioni di ammortizzatore dei conflitti sociali.

Le erogazioni necessarie al mantenimento di un capillare apparato di controllo politico e di consenso sociale, e gli oneri finanziari del debito pubblico, sopravanzarono così in modo sempre più grave le spese per la costruzione di infrastrutture e gli incentivi necessari a dare impulso all'economia. Il sistema economico divenne così sempre più fragile e statico, l'assistenzialismo trovò nuove ragioni per diffondersi, indebolendo ulteriormente l'economia, e così via, in un circolo vizioso sempre più grave.
Lo squilibrio nei conti pubblici divenne sempre più profondo. Tale squilibrio venne finanziato da un crescente indebitamento verso l'interno, in una prima fase; successivamente, il suo aggravarsi rese necessario ricorrere a crescenti finanziamenti internazionali, che i Rothschild furono pronti a mettere a disposizione. In questo modo l'indebitamento diventò una gabbia sempre più stretta per la società e l'economia pontificia. Ciò a differenza degli altri Stati europei, che, nella fase della rivoluzione industriale, seppero ricorrere all'indebitamento come strumento per lo sviluppo, sostenendo la crescita degli investimenti nel settore industriale e ferroviario.

In questo modo lo Stato pontificio, stretto tra la propria incapacità di adeguarsi alla realtà in mutamento e di accogliere i fermenti che agitavano l'Italia e l'Europa, si trovò ad affrontare un drastico e progressivo peggioramento della propria situazione finanziaria.
Lo Stato pontificio non giunse all'insolvenza o alla necessità di adottare misure straordinarie; prima che ciò avvenisse, i bersaglieri a Porta Pia posero fine al potere temporale del Papa; che peraltro non comprese subito quanto grande fosse il dono fattogli dai piemontesi.
Valuti il lettore quali insegnamenti trarre da queste considerazioni. E in particolare valuti il lettore se sfogliare il volume di Daniela Felisini alla ricerca di spunti per meglio valutare le radici lontane, culturali prima ancora che economiche, dell'Italia di oggi, del suo assistenzialismo così poco europeo, della sua finanza pubblica dissestata.
Ma con una differenza: oggi non si può più contare sulla certezza del lieto fine. Oggi non esistono bersaglieri disposti a salvare l' Italia risolvendo i problemi che spetta alla sua classe di governo risolvere.
Daniela Felisini, «Le finanze pontificie e i Rothschild», Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1991, pag. 246


Fonte: La questione meridionale rimane irrisolta


Fonte: Un finanziamento della massoneria britannica dietro l'avventura dei Mille
Un finanziamento della massoneria britannica dietro l'avventura dei Mille

La conquista degli Stati che componevano la Penisola italiana e, in particolare, del ricco Regno delle Due Sicilie da parte dei Savoia non fu solo dettata dall'esigenza di rientrare dall'esposizione nei confronti di Banque Rothschild che aveva già investito parecchio nelle avventure belliche piemontesi. Nella spedizione dei Mille il ruolo della massoneria inglese fu determinante con un finanziamento di tre milioni di franchi ed il monitoraggio costante dell'impresa.
A rivelare il particolare non trascurabile è stata la Massoneria di rito scozzese, dell'Obbedienza di Piazza del Gesù, che ha ricordato la data di nascita (4 luglio 1807) del nizzardo Garibaldi in una conferenza stampa ed un convegno alla presenza del Gran Maestro Luigi Pruneti e del Gran Maestro del Grande Oriente di Francia, Pierre Lambicchi.
«Il finanziamento - ha detto il professor Aldo Mola, docente di storia contemporanea all'Università di Milano e storico della massoneria e del Risorgimento - proveniva da un fondo di presbiteriani scozzesi e gli fu erogato con l'impegno di non fermarsi a Napoli, ma di arrivare a Roma per eliminare lo Stato pontificio».
Tutta la spedizione garibaldina, ha aggiunto il professor Mola, «fu monitorata dalla massoneria britannica che aveva l'obbiettivo storico di eliminare il potere temporale dei Papi ed anche gli Stati Uniti, che non avevano rapporti diplomatici con il Vaticano, diedero il loro sostegno».
I fondi della massoneria inglese, secondo lo storico, servirono a Garibaldi per acquistare a Genova i fucili di precisione, senza i quali non avrebbe potuto affrontare l'esercito borbonico, «che non era l'esercito di Pulcinella, ma un'armata ben organizzata».
Senza quei fucili, Garibaldi avrebbe fatto la fine di Carlo Pisacane e dei fratelli Bandiera, i rivoltosi che la monarchia napoletana giustiziò nella prima metà dell'Ottocento. «La sua appartenenza alla massoneria - ha sottolineato Mola - garantì a Garibaldi l'appoggio della stampa internazionale, soprattutto quella inglese, che mise al suo fianco diversi corrispondenti, contribuendo a crearne il mito, e di scrittori come Alexandre Dumas, che ne esaltarono le gesta».
Al «fratello Garibaldi» ha reso omaggio con un «evviva» il Gran Maestro del Grande Oriente di Francia.


Fonte: Le lettere di Mazzini a Pike
Le lettere di Mazzini a Pike

Jean Lombard annota che questa corrispondenza si trova depositata negli archivi di Temple House, la sede del Rito Scozzese di Washington, ma off limits cioè di consultazione vietata; pur tuttavia la lettera di Albert Pike, scritta il 15 agosto 1871, venne una volta esposta alla British Museum Library di Londra. Là un ufficiale di marina canadese, il commodoro William Guy Carr (presente in veste di consulente per gli Stati Uniti alla Conferenza di San Francisco del 26 giugno 1945) poté prenderne conoscenza e pubblicarne un riassunto nel libro citato Pawns in the Game.
Il documento è curiosamente profetico e precorritore della sinistra triade "crisi-guerra-rivoluzione", che ha tormentato il XX° secolo. Ecco in che forma lo presenta il Carr:

"[ ... ] La prima Guerra Mondiale doveva essere combattuta per consentire agli "Illuminati" di abbattere il potere degli zar in Russia e trasformare questo paese nella fortezza del comunismo ateo. Le divergenze suscitate dagli agenti degli "Illuminati" fra Impero britannico e tedesco furono usate per fomentare questa guerra. Dopo che la guerra ebbe fine si doveva edificare il comunismo e utilizzarlo per distruggere altri governi e indebolire le religioni.

La Seconda Guerra Mondiale doveva essere fomentata approfittando della differenza fra fascisti e sionisti politici. La guerra doveva essere combattuta in modo da distruggere il nazismo e aumentare il potere del sionismo politico, onde consentire lo stabilimento in Palestina dello stato sovrano d'Israele. Durante la Seconda Guerra Mondiale si doveva costituire un'Intemazionale comunista altrettanto forte dell'intera Cristianità. A questo punto quest'ultima doveva essere contenuta e tenuta sotto controllo rin quando richiesto per il cataclisma sociale finale. Può una persona informata negare che Roosevelt e Churchill hanno realizzato questa politica?

La Terza Guerra Mondiale dovrà essere fomentata approfittando delle divergenze suscitate dagli agenti degli Illuminati fra sionismo politico e dirigenti del mondo islamico. La guerra dovrà essere orientata in modo che Islam (mondo arabo e quello musulmano) e sionismo politico (incluso lo Stato d'Israele) si distruggano a vicenda, mentre nello stesso tempo le nazioni rimanenti, una volta di più divise e contrapposte fra loro, saranno in tal frangente forzate a combattersi fra loro fino al completo esaurimento fisico, mentale, spirituale ed economico.

[ ... ] Il 15 agosto 1871 Pike disse a Mazzini che alla fine della Terza Guerra Mondiale coloro che aspirano al Governo Mondiale provocheranno il più grande cataclisma sociale mai visto. Si citano qui le parole scritte dallo stesso Pike nella lettera che si dice catalogata presso la biblioteca del British Museum di Londra:

"Noi scateneremo i nichilisti e gli atei e provocheremo un cataclisma sociale formidabile che mostrerà chiaramente, in tutto il suo orrore, alle nazioni, l'effetto dell'ateismo assoluto, origine della barbarie e della sovversione sanguinaria. Allora ovunque i cittadini, obbligati a difendersi contro una minoranza mondiale di rivoluzionari, questi distruttori della civiltà, e la moltitudine disingannata dal cristianesimo, i cui adoratori saranno da quel momento privi di orientamento alla ricerca di un ideale, senza più sapere ove dirigere l'adorazione, riceveranno la vera luce attraverso la manifestazione universale della pura dottrina di Lucifero rivelata finalmente alla vista del pubblico, manifestazione alla quale seguirà la distruzione della Cristianità e dell'ateismo conquistati e schiacciati allo stesso tempo!"

"Quando Mazzini mori nel 1872 - prosegue ancora il Carr - nominò suo successore un altro capo rivoluzionario, Adriano Lemmi. A Lemmi più tardi sarebbero succeduti Lenin e Trotzkij. Le attività rivoluzionarie di tutti costoro vennero finanziate da banchieri inglesi, francesi, tedeschi e americani. Il lettore deve avere presente che i banchieri internazionali dì oggi, al pari dei cambiavalute dei tempi di Cristo, sono solo strumenti e agenti degli Illuminati. Mentre al grande pubblico era lasciato credere che il Comunismo è un movimento di lavoratori per distruggere il Capitalismo, gli ufficiali dei Servizi di Informazione inglesi e americani erano in possesso di autentica evidenza documentaria comprovante che capitalisti internazionalisti operanti attraverso i loro istituti bancari avevano finanziato entrambe le parti in ogni guerra e rivoluzione combattute dal 1776"

Giuseppe Mazzini, frammassone fondatore della "Loggia Propaganda P1" (da non confondersi con la "Loggia Propaganda P2" fondata da Adriano Lemmi nel 1875) e della "Prima Internazionale Comunista" ("L'altra faccia di Carlo Marx", ed. Uomini Nuovi).

Tratto da “Massoneria e sette segrete: la faccia occulta della storia”
Fonte www.disinformazione.it


Fonte: Savoia a bolletta salvato dai Rothschild
Savoia a bolletta salvato dai Rothschild

Giornali e televisioni ogni tanto ci dicono che il popolo italiano ha un mostruoso debito pubblico, ma nessuno ci dice verso chi siamo debitori. Apparentemente la cosa non è semplice da spiegare, in effetti la spiegazione è semplicissima: è soltanto una truffa, una grande truffa. Per farla capire dobbiamo tuttavia rifarci al 1861. L'anno dell'unità d'Italia.

Nel 1849 si costituiva in Piemonte la Banca Nazionale degli Stati Sardi, di proprietà privata.
L'interessato Cavour che aveva infatti propri interessi in quella banca; impose al parlamento savoiardo di affidare a tale istituzione compiti di tesoreria dello Stato. Si ebbe, quindi, una banca privata che emetteva e gestiva denaro dello Stato! A quei tempi l'emissione di carta moneta veniva fatta solo dal piemonte, al contrario il Banco delle Due Sicilie emetteva monete d'oro e d'argento. La carta moneta del Piemonte aveva anch'essa una riserva d'oro (circa 20 milioni), ma il rapporto era che ogni tre lire di carta valevano una lira d'oro. Il fatto è che, per le continue guerre che i savoiardi facevano, quel simulacro di convertibilità in oro andò a farsi benedire, sicché ancor prima del 1861 la carta moneta piemontese era diventata carta straccia per l'emissione incontrollata che se ne fece.

Avvenuta la conquista di tutta la penisola, piemontesi misero le mani nelle banche degli Stati appena conquistati. Naturalmente la Banca Nazionale degli Stati Sardi divenne, dopo qualche tempo, la Banca d'Italia. Avvenuta l'occupazione piemontese fu immediatamente impedito al Banco delle Due Sicilie (diviso poi in Banco di Napoli e Banco di Sicilia) di rastrellare dal mercato le proprie monete d'oro per trasformarle in carta moneta secondo le leggi piemontesi, poiché in tal modo i Banchi avrebbero potuto emettere carta moneta per un valore di 1200 milioni e sarebbero potuti diventare padroni di tutto il mercato finanziario italiano. Quell'oro piano piano passò nelle casse piemontesi. Tuttavia, nonostante tutto quell'oro rastrellato al Sud, la nuova Banca d'Italia risultò non avere parte di quell'oro nella sua riserva.

Evidentemente aveva preso altre vie, che erano quelle del finanziamento per la costituzione di imprese al nord operato da banche, subito costituite per l'occasione, che erano socie (!) della Banca d'Italia: Credito mobiliare di Torino, Banco sconto e sete di Torino, Cassa generale di Genova e Cassa di sconto di Torino.
Le ruberie operate e l'emissione non controllata della carta moneta ebbero come conseguenza che ne fu decretato già dal 1 MAGGIO 1866, il corso forzoso, cioè la lira carta non poté più essere cambiata in oro.
Da qui incominciò a nascere il Debito Pubblico: lo Stato cioè per finanziarsi iniziò a chiedere carta moneta a una banca privata. Lo Stato, quindi, a causa del genio di Cavour e soci, ha ceduto da allora la sua sovranità in campo monetario affidandola a dei privati, che non ne hanno alcun titolo (la sovranità per sua natura non è cedibile perché è del popolo e dello Stato che lo rappresenta).

Oltretutto da quando nel 1935 fu decretato definitivamente che la lira non era più ancorata all'oro, si ebbe che il valore della carta moneta derivò da allora semplicemente e unicamente dalla convenzione di chi la usa e accetta come mezzo di pagamento. La carta moneta, dunque, è carta straccia e in realtà alla Banca d'Italia (che è privata), a cui si dovrebbe pagare il debito pubblico, non si deve dare nulla. Ed è necessario, infine, ricordare che ancora oggi le quote dell'attuale Banca d'Italia sono possedute da varie Casse di Risparmio, da Banche e da Assicurazioni, cioè enti privati su cui la Banca d'Italia dovrebbe vigilare.
Da tutto questo potete facilmente capire in mano a chi siamo e che, dato che la Banca d'Italia ha un immenso potere finanziario e politico.....

qualsiasi governo in Italia conta come il due di briscola. (*)

Antonio Pagano

(*) Questo spiega, perché quando ci sono i governi in crisi, il premier è quasi sempre un governatore della Banca d'Italia (Da Carli - (che a un certo momento va ad assumere la presidenza della Confindustria) fino a Ciampi). Cioè con i "santi" al vertice delle autorità monetarie e di governo.