mercoledì 26 ottobre 2011

Se anche la Bce fa il tifo per il reddito di cittadinanza

Fonte MicroMega

di Giovanni Perazzoli

C’è un punto nella famosa lettera della Bce che non ha suscitato il dovuto interesse. Leggo che insieme all’“accurata revisione delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento dei dipendenti” bisognerà stabilire “un sistema di assicurazione dalla disoccupazione”.

Non voglio parlare adesso delle molte possibili critiche alla lettera (una tra tutte, il fatto che non faccia una parola sull’evasione fiscale italiana, ribadendo così l'orientamento generale che a pagare la crisi non debbano essere coloro che l'hanno provocata). Noto però con stupore che nessuno ha dato il giusto rilievo al passaggio citato sopra.

A proposito del quale, bisogna subito rilevare che esso induce a prendere atto di due fatti. Il primo è che, se si propone di istituire un’assicurazione sulla disoccupazione, evidentemente una simile assicurazione in Italia non c’è. Mentre c'è in Europa.
Il secondo fatto è che, per realizzare questa assicurazione sulla disoccupazione, non mancano i soldi.

Non mi pare poco. Nel momento estremo della crisi, quella stessa lettera della Banca Centrale Europea che consiglia il risparmio all’osso per tenere sotto controllo il debito pubblico, consiglia anche di introdurre in Italia un sussidio di disoccupazione. Il quale, evidentemente, dovrà immaginarsi analogo a quello degli altri paesi europei (dove anche chi non lavora ha un reddito garantito), ovvero corrispondente alle direttive europee sottoscritte e mai applicate dall’Italia (e dalla Grecia). Non credo che la Bce possa infatti proporre qualcosa di contrario o di diverso rispetto alle direttive europee.

Ma perché nessuno ne ha parlato? Certo, non sfugge il contesto drammatico nel quale cade la proposta dell’istituzione di questa “assicurazione sulla disoccupazione”. Tanto meno però deve sfuggire il fatto che, su questo specifico punto, niente il governo abbia “recepito”, e che nulla la sinistra abbia detto, spiegato, chiarito.

Invece, sarebbe essenziale dire, spiegare e chiarire. Anche perché in Italia sorprendentemente pochi sanno di che cosa si tratta, e gli equivoci sono continui. Ad esempio Franco Berardi, su questo sito si chiede con ironia se “la BCE erogherà finalmente un reddito di cittadinanza per tutti i disoccupati europei”; Beppe Grillo in un post dichiara che il suo movimento, come altri movimenti europei, da sempre sostiene il reddito di cittadinanza per i disoccupati. Sono solo due esempi.

Per evitare equivoci controproducenti per l’Italia, meglio allora essere chiari. I disoccupati europei non devono aspettare i banchieri centrali o il movimento indicato da Grillo per avere un “reddito di cittadinanza”, perché hanno già un “reddito di cittadinanza”. In Gran Bretagna la prima formula è del 1911 (National Insurance Act), in Belgio del 1915. La Francia – che è stata tra le ultime nazione ad adottare una forma di reddito di cittadinanza – lo ha istituito ormai più di vent’anni fa (RMI, Revenu minimum d'insertion, ora è stato riformato e migliorato e si chiama RSA). Tutti i paesi europei, ad eccezione di Italia, Grecia e Ungheria, hanno forme di “reddito di cittadinanza”. In generale, queste forme di sussidi sono illimitate nel tempo, con l’unica condizione della ricerca attiva di un lavoro da parte di chi ne usufruisce; ad esse si devono aggiungere altri aiuti per l’alloggio, integrazioni per i redditi sotto una certa soglia etc. (In calce i riferimenti a Wikipedia ). Il sostegno del reddito è, del resto, uno dei pilastri del welfare state, come la scuola, la sanità, la pensione.

Perché allora ci sono dei movimenti europei che chiedono il “reddito di cittadinanza”? Perché questi movimenti vogliono andare oltre quello che già hanno. Infatti, una cosa è il sussidio di disoccupazione, un’altra il reddito universale. Spesso si prende il “reddito di cittadinanza” come un sussidio rivolto al disoccupato; l’idea di questi movimenti è invece intendere il “reddito di cittadinanza” nel senso di un reddito rivolto a tutti, che lavorino o meno. Ma la differenza non deve occultare che le forme di sussidio di disoccupazione o di reddito minimo garantito europee costituiscono di fatto una forma di reddito universale o di cittadinanza perché comunque, per così dire, nessuno resta senza un euro in tasca. Tanto più che a questi sussidi si accede con la maggiore età anche se non si è mai avuta un’occupazione in precedenza.

Tuttavia, il fatto non è il diritto; e l’idea che il sussidio riguardi il disoccupato in cerca di lavoro non è un aspetto neutrale di questo istituto. Ed è per questo che in Europa esistono dei movimenti che vogliono andare oltre il tipo di reddito di cittadinanza come indennità di disoccupazione o integrazione del reddito. Le teorie proposte sono molto interessanti, ma in Italia hanno involontariamente confuso le acque, che erano già torbide per conto loro. Poiché in Italia non è noto che in Europa i disoccupati usufruiscono di una serie di sussidi e di facilitazioni, si può cadere nell’errore di credere che i movimenti per il reddito universale vogliano un sussidio per i disoccupati. Il che non è vero. Anzi, nella formulazione più importante, quella del Basic Income, è vero il contrario. L’idea nuova è che il “reddito di cittadinanza” debba essere pensato non solo per i disoccupati (lo hanno già), ma anche per chi lavora. In generale, l’idea di questi movimenti è che il reddito di cittadinanza debba essere indipendente dal lavoro.

La forma più elaborata e influente di questa teoria politico-economica è quella formulata dal filosofo ed economista belga Philippe van Parijs, dell’università americana di Harvard e della Katholieke Universiteit Leuven (Belgio). Intorno a lui si è creata anche una rete internazionale molto attiva, formata da economisti, uomini politici, filosofi, studiosi attivisti (Bien http://www.basicincome.org/bien/. In Italia, invece esiste il Bin http://www.bin-italia.org/).

Qui non posso illustrare la teoria di van Parijs. Ma è importante notare, per avere un’idea del dibattito sul welfare state in Europa, che uno degli argomenti da lui utilizzati a favore del Basic Income – ovvero del reddito universale distribuito a tutti, lavoratori o disoccupati – è che esso potrebbe risolvere una delle distorsioni che si imputano alle forme europee di reddito minimo garantito: la “trappola assistenziale”.

Di che cosa si tratta? La disoccupazione sarebbe prodotta in Europa, oltre che dalla crisi e dalla globalizzazione, proprio dai sussidi di disoccupazione. Il disoccupato europeo (non italiano, ovviamente, che ha solo la famiglia, perché un vero welfare in Italia non c'è) può essere incentivato a non lavorare dal sussidio. In effetti, in molti casi, può non essere conveniente da parte del disoccupato cercare un lavoro, visti gli aiuti a cui si ha diritto – sussidio disoccupazione, sostegno economico per i figli, alloggio gratuito, esenzione per le spese sanitarie, contributi per i trasporti, il riscaldamento, il telefono ecc. In particolare, il sussidio si trasformerebbe in un incentivo a non lavorare per le donne, già gravate dalla cura della famiglia. Di fatto, specialmente per i lavori meno qualificati, le somme percepite finiscono per essere equivalenti a quelle del sussidio: è stato calcolato che in Germania la differenza tra un basso salario e il sussidio sarebbe di circa 100 euro.

Ora, secondo van Parijs, un’allocazione universale uguale per tutti (seguita da una tassazione per fascia reddito che tolga quanto anche ai ricchi viene dato con il Basic Income) disinnescherebbe la trappola assistenziale perché invertirebbe la direzione dell’incentivo: lavorare non comporterebbe la perdita dei vantaggi che si hanno non lavorando. Facciamo l’ipostesi di un reddito minimo corrisposto a tutti di 1000 euro. Ricchi e poveri percepirebbero tutti mille euro, salvo il fatto che i più ricchi verrebbero tassati di mille euro (quello che prendono lo restituiscono con le tasse). La differenza rispetto alle forme di reddito garantito europee è che non ci sarebbe più il disoccupato “assistito”; lavorare e quanto lavorare sarebbe una scelta, prevedendosi anche il caso di chi, rinunciando a un certo livello di consumi, preferisca non lavorare (per avere, ad esempio, tempo libero o per dedicarsi ai figli) o preferisce lavori meno remunerati (ad esempio, vicini al volontariato ecc.). Nel caso di una donna, tornare al lavoro dopo avere avuto un figlio non sarebbe disincentivato dal venire meno del sussidio, ma verrebbe al contrario incentivato grazie alla più alta retribuzione.

I costi? Secondo van Parijs dovrebbero essere inferiori a quelli che servono attualmente per finanziare in media il welfare europeo, soprattutto perché il suo Basic Income prevede l’azzerarsi di tutti gli altri sussidi e aiuti. Uno dei libri più importanti di van Parjis – Real Freedom for All: What (if anything) can justify capitalism?, Clarendon Press, 1995 – ha in copertina un tizio che se la spassa sul windsurf. L’autore racconta che la scelta della copertina riprende il caso su cui aveva discusso con il filosofo americano John Rawls: una società giusta può prevedere la libertà di scegliere di non lavorare, per passare il tempo a fare windsurf su una spiaggia assolata?

Il Basic income, secondo van Parijs, dovrebbe contribuire a modificare profondamente l’incidenza dell'esclusione dal lavoro, della povertà e rendere la società più giusta non solo dal punto di vista della distribuzione delle risorse, ma anche, ed è questo l’aspetto più importante, dal punto di vista della libertà delle scelte. La Bocconi ha pubblicato in traduzione italiana nel 2006 un bel libro di van Parijs, Il reddito minimo universale, dove si possono trovare tutte le informazioni sul tema.

Ogni lettore italiano percepisce immediatamente la distanza siderale tra questi problemi e quelli italiani. Quanti di noi avrebbero mai sospettato che il disoccupato potesse stare meglio dell’occupato? E invece, anche se può stupire, in Germania, Francia, Olanda ecc., il difetto (vero o presunto) di incentivare la disoccupazione attribuito al reddito di cittadinanza (o come lo si voglia chiamare) è uno dei temi chiave del dibattito politico sul welfare state. E comunque, la destra non propone di cancellarlo, ma di ridurne l'impatto sulla disoccupazione, inducendo il disoccupato ad accettare il lavoro offerto dall’ufficio di collocamento, anche se questo corrisponde solo in parte alla propria qualifica professionale. Secondo la riforma del governo conservatore britannico di Cameron, il disoccupato che rifiutasse per tre volte un lavoro ragionevolmente vicino alla sua formazione professionale resterebbe tre anni senza sussidio. È facile capire che proprio questa politica restrittiva ha innescato la crescita di movimenti più radicali che intendono svincolare del tutto il reddito minimo garantito dal lavoro. E la posizione di van Parijs è estremamente interessante, soprattutto nella crisi attuale.

Complessivamente, restando al presente, il reddito di cittadinanza esistente in Europa ha, comunque, più vantaggi che svantaggi; non è infatti solo un rimedio “alla povertà” (il fatto che in Italia di questi temi si discuta sotto il profilo del “rimedio alla povertà” è un indicatore quasi infallibile della confusione regnate), ma è un istituto che accresce la disposizione al rischio di impresa (perché crea una rete di protezione), che rinsalda il legame sociale e nazionale (come notava Eric Hobsbawm ne Il secolo breve), che abbatte il clientelismo e la classe politica che da esso si alimenta.

Non da ultimo, la flessibilità sul lavoro è ben altra cosa se esiste una rete seria di protezione (ma deve essere seria e non un surrogato di Europa, come lo sono alcune attuali leggi regionali). Si potrebbe allora anche immaginare una società diversa da quella che viene difesa solo perché non si ha davanti un'alternativa. La diffusione in Europa del movimento per il “reddito universale” avviene sulla base di anni di sussidi che non sono rivolti a chi ha perso il lavoro, ma a chi non lavora o, pur lavorando, non guadagna abbastanza.

Perché guardare indietro e non avanti? In fondo, una società ingessata nella quale l’operaio farà per tutta la vita l’operaio, e deve anche ringraziare il parroco o l’assessore che lo ha raccomandato perché venisse assunto, non è proprio un modello di società giusta e libera. Il posto fisso in un mondo a sua volta fisso è una condanna mascherata, che penalizza i più deboli: trovato il posto, guai a te se non ti comporti bene e non ti metti in riga (devi pure pagare le rate del mutuo). I conflitti sul lavoro? Le donne che devono sopportare il superiore che ci prova? Sono situazioni che non hanno via di scampo, tranne ricorre all’avvocato e al tribunale in caso di licenziamento. Ma questa rappresentazione della società, che è in fondo frutto dell’immaginario sovietico della vecchia sinistra (uno mondo, del resto, speculare a quello del film Pleasantville, stile anni ’50, in cui ogni individuo “è” per il ruolo che ha, secondo un legge inesorabile, sempre presupposta come giusta, che distingue chi è in alto e chi è in basso nella gerarchia sociale), ha impedito fin qui in Italia l’adozione di una forma di assicurazione sulla disoccupazione sul modello delle socialdemocrazie europee (che erano “piccolo borghesi”). Una rete solida darebbe a tutti invece una di quelle opportunità che sono il metro di una società giusta e libera: la possibilità di cambiare vita (che molto spesso significa la possibilità di migliorare le proprie condizioni di partenze).

È curioso che da noi si continui ad ignorare una realtà europea esistente, tutt’altro che utopistica (perché rodata in mille modi e difesa nella sua sostanza sia da destra che da sinistra), e così normale e consueta che ce la viene a proporre addirittura il banchiere centrale europeo.

Spero di aver dato un’idea di quello che in margine alla lettera della Bce non è stato detto.

lunedì 24 ottobre 2011

Ferie forzate

Non sono scomparso e non ho perso lo spirito iniziale che ha dato vita a questo blog.
Sono stato quasi un mese senza poter scrivere e linkare articoli di altri siti perchè il mio computer si è rotto e ho dovuto comprarne uno nuovo.

lunedì 5 settembre 2011

La lingua siciliana

Fonte La Sicilia in Rete

Lo studio del dialetto siciliano porta a ricercare le origini della lingua e gli influssi che essa ha subito. Una breve ricerca storica rivela la sua unicità e la sua natura multiculturale.

I diversi popoli, che negli ultimi 2.500 anni si sono susseguiti alla dominazione della Sicilia, hanno lasciato un’impronta indelebile nella lingua e nella cultura siciliana.
La parlata siciliana non deve essere considerata come dialetto ma come lingua a pieno titolo, per due ragioni :è nata con il popolo siciliano, è rimasta intatta nelle sue caratteristiche e peculiarità durante i secoli e gode della propria Grammatica e del proprio Vocabolario.

La lingua siciliana che tuttora si scrive e si parla, è in realtà la lingua degli Aborigeni siciliani.Questi aborigeni sono i Siculi provenienti del Lazio e i Sicani provenienti dalla penisola iberica e dall’Africa, che incontrandosi in Sicilia, hanno amalgamato il loro modo di vita e le loro lingue. Non vanno poi dimenticati gli Elimi, un pacifico popolo di pastori e contadini proveniente dalla Libia.
Fin dall’ottavo secolo avanti Cristo la Sicilia fu sottomessa da onde di invasori dagli idiomi più diversi: Greci, Fenici, Cartaginesi, Unni, Vandali germanici, Goti di Svezia, Arabi, Bizantini, Normanni nonché Stauffer di Svevia. Cui fecero seguito i Romani, gli Angioini, i Savoia, gli Aragonesi, gli Spagnoli e quindi gli Austriaci, i Borboni, i Francesi e persino gli Inglesi. È facile capire in che misura, attraverso questi influssi, la lingua siciliana possa essersi sviluppata arrivando ad essere quella che si parla e si scrive oggi. Il latino incise moltissimo sulle varianti dialettali siciliane, nonostante il greco fosse molto diffuso già due secoli prima della conquista romana.
Con il susseguirsi delle occupazioni, gli usi e i costumi siciliani cambiarono, ma la lingua resto’ immutata nella sua essenzialità anzi si arricchi’ per assimilazione di un infinità di vocaboli derivate dalle varie lingue europee, orientali ed africane introdotte nel puro idioma siculo.

Da lingua semplicemente parlata, la lingua siciliana comincio’ ad essere scritta e ad entrare negli atti notarili e nei documenti ufficiali intorno al 1000.
Federico II di Svevia, nipote di Barbarossa, venne proclamato re di Sicilia ancora giovanissimo. Essendo stato educato molto di più in Sicilia che in Svevia, istintivamente scelse Il dialetto siciliano come lingua nazionale.

Nonostante a corte egli parlasse un idioma esclusivamente franco-normanno, volle che la letteratura scritta e la lingua poetica fossero rappresentate dal siciliano, in quanto allora non esistevano ancora opere letterarie e trattati scientifici su carta. In quel periodo i siciliani stupirono con l’impiego della carta al posto della pergamena e già allora il dialetto sia scritto che parlato non era diverso da quello di oggi.

In questo vivacissimo ambiente culturale infatti, intorno agli anni Trenta del XIII secolo, era sorta la nuova lirica cortese in volgare italiano. Gli autori, legati alla struttura giuridica e
amministrativa del Regno meridionale, trapiantarono nel volgare di Sicilia i modelli della lirica cortese provenzale, allo scopo di mettere a punto una lingua letteraria capace di rispecchiare il prestigio della corte di cui fanno parte.

Cosi’ questa lingua comincio’ ad imporsi, con la sua grammatica, la sua sintassi e la ricchezza dei suoi vocaboli potente nelle espressioni, all’attenzione del mondo culturale.

A partire dal 1250 Con la morte di Federico II e la dissoluzione della corte, l’eredità della scuola siciliana venne raccolta nel nord Italia, specialmente in Toscana, dove si venne a formare una corrente di poeti, i “siculo-toscani”, che in seguito avrebbe dato origine alla scuola del dolce stil novo e alla lingua italiana che si affermò come lingua del popolo italiano, al contrario del siciliano che fu degradato al ruolo di semplice dialetto regionale.

I poeti non erano più originari dell’isola e la Toscana ha ereditato dalla Sicilia il titolo di centro creativo della letteratura italiana. Nonostante ciò persino Petrarca e Dante Alighieri ammisero la preminenza della lingua popolare siciliana come prima lingua letteraria italiana. Un fatto molto importante da precisare, che mentre la lingua e la letteratura italiana si stavano formando, il siciliano ebbe un grandissimo influsso...
(emanuele)

sabato 3 settembre 2011

Il Sud nelle varie ed eventuali

Fonte Onda del Sud

di Lino Patruno
Uno dice: ma con tutto ciò che sta succeden­do, ci mettiamo a par­lare di Sud? Ma per fa­vore. Del Sud non si deve parlare mai. Anche perché, siccome l’Ita­lia è abbonata ai guai, il Sud è finito sempre nelle varie ed even­tuali, se ne parla alla fine se c’è tempo. E del resto, la filosofia è sempre stata quella della locomotiva del Nord: quando la locomo­tiva parte i vagoni acclusi del Sud partono anche loro. Ciò che contava e conta è che cresca il Nord.

Poi magari si scopre che da dieci anni l’Italia non cresce e a nessuno viene in mente di chiedersi se la locomotiva sia sufficiente. Anzi si incolpano i vagoni, troppo pesanti e dannosi, sgancia­moli al loro destino. E a nessuno che salti invece in mente, come i nostri ferrovieri san­no, che a volte conviene mettere la locomotiva in coda per fare meno sforzo. Cioè far crescere l’Italia dove c’è ancóra tutta la crescita ine­spressa, come si farebbe in qualsiasi azienda dove c’è una sacca di produzione da attivare. Il saggio contadino non si mette mica a stremare la solita terra se ne ha un pezzo incolto da far fiorire.

E’ fallito il principio della locomotiva. O quello, come si dice anche, della marea: se sale, sale per tutti. Perché nessuno vuole ammet­tere che quella locomotiva non andrebbe da nessuna parte senza i suoi vagoni. Il Sud ac­quista ancóra il 60 per cento dei prodotti del Nord. Senza il Sud non ci sarebbe il Nord, senza questo Sud non ci sarebbe quel Nord. Ma allora bisogna chiamarlo col suo vero nome, che è colonialismo: non mi fai crescere per non compromettere il tuo benessere, non mi fai crescere per non avere concorrenza in casa. Tranne dire, come in questi giorni ha detto il solito leghista, che tre quattro regioni man­tengono tutta l’Italia. E bisognerebbe tenerne conto, altrimenti salutano (se pure) e se ne vanno per conto loro.

Il leghista non dovrebbe vantarsene, ma fare l’esame di coscienza. Crescere non è pec­cato, per carità. Ma è peccato crescere ai danni degli altri. Soprattutto quando, com’è inevi­tabile, non si cresce più e si dà la colpa agli altri. E se non cresci e devi ridurre il debito, sei costretto a tagliare sempre di più, non potendo compensare con le entrate. In questi giorni l’Italia sta insomma pagando a lacrime e san­gue anche un suo modello che ha mantenuto intatto il divario fra Nord e Sud. E ora che sono crollati i consumi al Sud, i signori del Nord a chi vendono?

Qualsiasi studente di economia sa che, in questa situazione, bisogna allargare la base produttiva: attivare il reparto che produce po­co o coltivare la terra incolta. Cioè mettere il Sud nella condizione di dare un apporto che ora gli è impedito di dare. Perché per essere concorrenziale ne devi avere i mezzi a di­ sposizione. A cominciare dalle infrastrutture: quelle materiali (investiresti mai nella Cala­bria in cui c’è l’autostrada Salerno-Reggio Ca­labria?), quelle immateriali (investiresti mai dove per farti recuperare un credito la giu­stizia civile ci mette dieci anni?), quelle sociali (investiresti mai dove non c’è l’asilo per tuo figlio o dove la criminalità ti taglieggia in­disturbata?).

Tutto questo non dipende dai meridionali, ma dal mitico Stato. Come definiremmo un Paese con un divario simile del 40 per cento fra Nord e Sud? E in cui, nonostante questo, il suddetto Stato, con governi di sinistra e di destra, non ha mai mantenuto l’impegno di destinare al Sud almeno il 45 per cento della sua spesa in investimenti? E in cui i ricorrenti Piani per il Sud svaniscono inesorabilmente di fronte alle urgenze di badare ad altro, magari destinando i soldi per il Sud alle multe dei lattai padani o ai traghettatori del lago di Gar­da?

Ansima la locomotiva del Nord: non hanno più neanche gli spazi per i capannoni, poi li alzano vicino ai fiumi e ai laghi e si prendono purtroppo le alluvioni come in Veneto. E se questa locomotiva da dieci anni ansima, ci si vuol mettere una volta per tutte in testa che soltanto il Sud potrà salvare il Nord e l’Italia anche? Sì, il Sud, anche se sembra una be­stemmia, visto il pregiudizio.

La Germania ha speso ciò che ha speso per l’ex Germania Est (per la cronaca: 50 volte più della Cassa per il Mezzogiorno) ma non l’ha abbandonata al destino di vagone appresso. E a chi obietta indignato che il Sud non dovrebbe parlare visti “tutti i soldi che vi abbiamo dato”, bisogna ricordare che quella spesa non si è mai aggiunta a quella normale (ordinaria) dello Stato, quindi in gran parte è stata una presa in giro. E a chi incalza ancóra più indignato che il Sud ha sprecato, bisogna ricordare che a spen­dere è stato quasi sempre lo Stato. E che nes­suno può scagliare la prima pietra in un Paese che, benché sia pieno di debiti, continua ad aumentare la spesa pubblica ogni anno.

Invece di continuare a dare al Paese im­migrati, il Sud può dare ricchezza per far crescere tutti. Ed è tanto bravo, il Sud, se lo mettano in testa.

da “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 2 settembre 2011

Se il sud si sveglia diciamogli «borbonico»

Fonte La Gazzetta del Mezzogiorno

di LINO PATRUNO
Proprio non ci vogliono stare. Tutti quelli abituati a un Sud dello “sconfittismo”, del “dolorismo”, del “perditismo”, del “lacrimismo”. Appena il Sud alza la testa c’è sùbito qualcuno, anche al Sud, che gli dà sulle mani. Stai buono lì e non ti far venire cattive idee, non vorrai minare l’unità nazionale fondata sulla ricchezza del Nord e sulla sottomissione del Sud. Non vorrai svergognare storici, e meridionalisti anche, che si sono sistemati su poltrone e poltroncine garantendo il silenzio del Sud tranne qualche indignazione da convegno (con gettone di presenza). Non vorrai, non vorrai.

Appena il meridionale s’indigna, puntuale la scomunica: borbonico. A uno magari non gliene importa proprio niente dei Borbone. Come, tutto sommato, di Garibaldi.

Gli importa capire come mai, dopo 150 anni di Italia unita, l’Italia è disunita da un divario inossidabile fra CentroNord e Sud, unico fra tutti i Paesi moderni. Come mai i suoi figli devono continuare a emigrare come sempre nella storia del Sud dopo, appunto, l’unità: perché per i meridionali non c’è mai posto, devono andarsene. Coi bastimenti per terre assai lontane, con le valigie di cartone, ora con trolley e computer. E se chiedi chi ha parenti fuori, si alzano decine di mani.

Allora si pensa: forse i meridionali sono esseri inferiori. No, non funziona anche se piacerebbe, ma poi questi maledetti meridionali vanno al Nord e sono i più bravi di tutti. Tanto che gli dicono: tu non sembri meridionale. Allora forse al Sud c’è il caldo che addormenta: ma ora a Milano fa ancòra più caldo. Allora è possibile che al Sud ci siano condizioni tali per cui i meridionali non possono esprimersi anche volendolo. Diciamo meno strade, meno banche, meno servizi pubblici, meno tecnologie. E se uno si ribella per questo, possiamo definirlo “borbonico”? Che c’azzecca?

Magari questi sudisti prima o poi si arrabbiano davvero a sentirsi dire “porci” dal ministro Bossi, “merdacce mediterranee” dal ministro Calderoli, “cancro” dal ministro Brunetta, “Alì Babà” dal ministro Tremonti. Magari al Sud uno si arrabbia a sentirsi ripetere dalla sinistra che quello del Sud non è un problema del Sud ma un problema nazionale e poi si accorge che l’unica nazionale che conta è quella di Prandelli. Magari al Sud uno s’accorge che la storia che gli hanno raccontato non è poi tutta oro colato e che, come dice lo storico Sergio Romano, ebbene sì ci fu una conquista violenta ma necessaria. E si domanda perché, se necessaria fu, non si vuole ammettere che anche violenta fu, con tutte le conseguenze.

Tutto questo comincia a capire la “gente” del Sud, mentre si sente sempre parlare dei sacrosanti diritti della “gente” del Nord, preoccupata di difendere non la propria miseria come al Sud ma la propria ricchezza: dagli immigrati, dalle tasse, dalla concorrenza (si dovesse mettere in testa anche il Sud di fare da sé). Il Sud che compra ogni anno il 60 per cento dei prodotti del Nord e mai sia smette, con queste minacce di CompraSud. Il Sud cui al tempo della Cassa per il Mezzogiorno (anzi per il Settentrione) il Nord impedì di avere la piccola e media industria e lo sistemò per le feste con l’industria pesante che lo ha mezzo distrutto fra acciaio, chimica, raffinerie. Il Sud cui è stato piazzato il federalismo fiscale del “ciascuno si tiene i suoi soldi” e poi è fregato perché le imprese del Nord che vi operano, le tasse non le pagano al Sud ma al Nord. Il Sud abbagliato con piani da 100 miliardi e poi per l’alta velocità ferroviaria Bari-Napoli, che costa 8 miliardi, gli danno un primo stanziamento di 1,8 miliardi, così finisce come la Salerno-Reggio Calabria in costruzione da 40 anni.

Il Sud che comincia a capire, comincia a rompere le scatole. E quegli imbonitori che gli riempiono la testa sono dei “borbonici”, almeno intimidiamoli tutti perché non li si può fucilare di nuovo come briganti. Questo Sud che il solito signor Salvini, quello che cantava ”senti che puzza, fuggono anche i cani, sono arrivati i napoletani”, dice che il Nord si è stancato di aiutare, l’ultimo aiuto che gli abbiamo dato è il federalismo fiscale che farà essere sempre più ricco il Nord e sempre meno ricco il Sud. Anzi dalle prime avvisaglie sotterrerà di tasse anche loro che si credevano furbi.

E se il Sud, questo è davvero il colmo, comincia a chiedersi come mai tutti i partiti del Sud che stanno nascendo se ne vanno nella coalizione in cui c’è la Lega Nord, allora sùbito ad accusarlo di volere un suo partito fuori dai partiti per spaccare l’Italia. Fino alla madre di tutte le accuse: il Sud vuole nascondere le sue responsabilità. A cominciare da quelle di essersi sempre fatto terrorizzare da chi gli dice ora “borbonico”. Con molti degli accusatori che si sono ingrassati garantendo un Sud che si stesse buono. E invece di capire perché i “basta” del Sud nascano, si agitano ora per impedire che crescano.

venerdì 2 settembre 2011

La guerra segreta dell'Inghilterra all'Italia

Fonte Beppe Grillo

La Gran Bretagna ha avuto un'influenza enorme sulla storia italiana, sull'economia del nostro Paese e sulle vicende politiche interne, almeno a partire dal Risorgimento. Si può dire che il rapporto strettissimo e spesso di dipendenza dell'Italia dalla Gran Bretagna sia iniziato con la nascita dello Stato Unitario nel 1861, e con l'Impresa dei Mille naturalmente è iniziato un anno prima. L'idea di uno Stato Unitario aveva radici interne, ma il progetto subì un'accelerazione quando gli inglesi capirono che attraverso l'apertura del Canale di Suez, progettata dai francesi, l'Italia sarebbe diventata una postazione strategicamente importantissima e quindi mettere le mani sul nostro paese, controllarlo politicamente, e spesso anche militarmente, avrebbe garantito agli inglesi il controllo anche delle rotte commerciali dal Mediterraneo all'estremo Oriente. E quindi la Gran Bretagna diede un colpo di acceleratore al progetto di unità nazionale dell'Italia, finanziando e sostenendo in tutti i modi l'impresa Garibaldina.
Giovanni Fasanella

Intervista a Giovanni Fasanella, giornalista e co-autore de "Il golpe inglese":

150 anni di Unità condizionata
Dalla nascita dello Stato Unitario in poi l'Inghilterra ha sempre avuto un ruolo fondamentale nelle nostre vicende politiche interne e in tutti i passaggi cruciali della storia italiana. L'ha avuto quando Mussolini e il Fascismo presero il potere, grazie anche all'appoggio dei conservatori inglesi; lo ha avuto anche durante il ventennio fascista controllando e condizionando le scelte di una parte, quella più anglofila del regime; l'ha avuto nella caduta poi di Mussolini,organizzando il colpo di stato del 25 luglio; l'ha avuto durante la guerra, nella lotta contro i nazisti e la Repubblica sociale durante l' intero arco della Guerra Fredda e lo ha avuto anche dopo, perché c'è lo zampino inglese anche in molte delle vicende che hanno segnato la storia italiana dell' ultimo ventennio.

Gli inglesi hanno, nel corso dei 150 anni di storia unitaria, costruito delle loro quinte colonne interne attraverso le quali hanno condizionato il corso della politica italiana; avevano un' influenza enorme nel mondo dell'informazione, nel mondo della cultura e dell'industria editoriale, della diplomazia, degli apparati, quindi dentro le nostre Forze Armate e gli stessi Servizi Segreti Italiani, nelle organizzazioni sindacali, nella politica italiana. In tutti questi ambienti gli inglesi avevano costruito una sorta di loro partito che in qualche modo ubbidiva agli ordini di Londra o comunque era particolarmente sensibile agli input che partivano dalla Gran Bretagna.

Ci sono state anche delle fasi caratterizzate da aspri conflitti tra Italia e Gran Bretagna. Questo è successo tutte le volte che l'Italia ha tentato di emanciparsi dai vincoli che derivavano dall'esito della Seconda Guerra Mondiale, perché per i britannici, a differenza degli americani, l'Italia non era un paese che si era liberato dal nazi-fascismo combattendo al fianco degli eserciti alleati, ma era un paese sconfitto in guerra e quindi soggetto alle leggi dei paesi vincitori.

Enrico Mattei e Aldo Moro
Secondo la dottrina britannica, elaborata da Churchill già nella fase finale della Seconda Guerra Mondiale e formalizzata subito dopo, c'erano tre cose che l'Italia non poteva assolutamente fare. La prima: avere, costruire un sistema politico compiutamente democratico, cioè con l'alternarsi al governo di maggioranza e opposizione, per la presenza di un partito comunista, che era il più forte del mondo occidentale; la seconda era pensare autonomamente a una politica della sicurezza; e la terza cosa, la più importante che l'Italia non poteva fare, secondo la dottrina di Churchill, era avere una politica estera autonoma basata su un proprio interesse nazionale. Ogni mossa di politica estera del nostro governo doveva essere concordata con gli inglesi e avere il visto britannico.

Quando l'Italia, nel tentativo di emanciparsi da questa condizione di dipendenza, ha tentato di bypassare quelle regole, sono nati i conflitti più duri con gli inglesi. Fra i tanti personaggi della politica italiana del Secondo Dopoguerra che hanno incarnato un'idea nazionale dell'Italia, cioè di un paese che pur appartenendo ad un sistema di alleanze politico-militare internazionale, qual era l'Alleanza Atlantica alla Nato, non rinunciava ad una propria linea di politica estera autonoma nell'ambito più naturale, che era quello del Mediterraneo.
Tra questi personaggi io vorrei ricordarne due, in particolare Enrico Mattei, che attraverso la sua politica energetica contribuì a fare dell'Italia una delle potenze economiche mondiali, e il suo successore Aldo Moro. Entrambi erano considerati dai britannici dei nemici mortali, dei nemici degli interessi inglesi da eliminare con ogni mezzo.
Enrico Mattei morì in un incidente aereo provocato da un sabotaggio e qualche decennio dopo Aldo Moro morì assassinato dalle Brigate Rosse.

America e Inghilterra non avevano la stessa visione del problema italiano, per gli americani eravamo il paese in cui sviluppare il sistema democratico, per gli inglesi invece il sistema democratico doveva rimanere un sistema sostanzialmente chiuso.
In passaggi delicati della nostra storia, in passaggi anche drammatici, come a cavallo tra il '69 e il 1970, quando Junio Valerio Borghese progettava con l'aiuto inglese un colpo di stato in Italia, gli americani si opposero. E la stessa cosa gli americani fecero quando nella seconda metà degli anni 70, si pose il problema dell'ingresso del partito comunista nel governo italiano. Per gli americani il problema poteva essere superato limitando all'Italia la possibilità di accesso ai segreti Nato più sensibili, per l'Inghilterra invece il problema doveva essere risolto in modo più radicale, addirittura attraverso un golpe che avevano progettato e organizzato nei minimi particolari per un anno intero e che poi lasciarono cadere perché, come dicono gli stessi documenti desecretati della diplomazia britannica, il governo inglese optò per, parole testuali, l'appoggio a una diversa azione eversiva.




domenica 28 agosto 2011

Un nuovo '92 è alle porte

Fonte Beppe Grillo

Un nuovo '92 è alle porte. Rispetto ad allora la corruzione è aumentata e i giudici sono stati messi nelle condizioni di non nuocere. E questo è forse un bene. Un cambiamento radicale in Italia non può avvenire attraverso la magistratura, ma solo con il risveglio dei cittadini come disse Monicelli. Amato, vicesegretario generale del Psi dei ladri, si presentò allora in televisione in qualità di presidente del Consiglio (sic). Disse che se non cacciavamo 90.000 miliardi di lire, una cifra enorme per l'epoca, eravamo falliti. Introdusse l'ICI sulle nostre abitazioni e mise letteralmente le mani nei nostri conti correnti con un prelievo forzoso. Craxi si rifugiò in Tunisia per non finire in galera e l'Italia finì nelle mani dei suoi nani e delle sue ballerine. Tremorti, Brunettolo e Sacconi erano al suo servizio e ora sono ministri. L'ex presidente del Consiglio, ora commissariato e senza alcun potere, si trovava nella stanza di Bottino Craxi all'hotel Raphael. Il futuro latitante scese a prendersi le monetine da 200 lire e il suo sodale si prese il Paese in nome e per conto del craxismo.

Dal '92 viviamo sospesi, tra stragi irrisolte e nell'assenza di un progetto di futuro. Il Paese ha divorato sé stesso, le sue industrie, l'ambiente. Ha perduto la coesione sociale e il rispetto che aveva nel mondo. Il debito pubblico ci ha consentito di spostare sempre più in là la resa dei conti. Un pozzo di San Patrizio maligno a cui si è attinto per non guardare in faccia la realtà. La Nazione è ora indebitata in modo irreparabile e senza speranze di sviluppo nel medio termine. In sostanza è fallita.

Se nel '92 una cura da cavallo ci permise di rimanere in piedi, oggi non solo non è sufficiente una manovra da 90 miliardi di euro, ma forse neppure da 200 miliardi, e tagliare non serve senza un'idea di futuro. Il craxismo ha vinto. Craxi iniziò lo smantellamento del Paese all'inizio degli anni '80 e i suoi successori lo hanno portato a termine. Nel '92 crollò il comunismo, nel 2012 la stessa sorte potrebbe toccare al capitalismo (o super capitalismo come è spesso chiamato).

L'Italia è una barchetta di carta nelle tempeste internazionali che la aspettano. Non ci aiuteranno gli Stati Uniti, né tanto meno la UE. Se non ne usciamo da soli rischiamo l'implosione, una jugoslavia dolce, un rompete le file, ognuno per sé e Dio per tutti. Il ribellismo al Sud e la secessione di alcune Regioni al Nord.

Questa indegna classe politica non se ne vuole andare, eppure dovrebbe, fosse solo per un sussulto di dignità. Chi ha fallito e continua a vivere di privilegi non può restare un minuto di più al suo posto. Non può chiedere nulla al Paese. Vale per il Governo, vale per le cosiddette opposizioni e vale ancor di più per le Istituzioni. Io, Grillo, cittadino italiano, nato a Genova, di mestiere comico, mi sono rotto i coglioni. Può essere un sintomo strettamente personale, ma credo invece che appartenga ormai alla maggior parte degli italiani. Con una nuova classe politica forse ce la possiamo fare, con questa siamo condannati. Loro non si arrenderanno mai (ma gli conviene?). Noi neppure.

mercoledì 24 agosto 2011

Pontelandolfo 2011: sotto il segno dell’identità duosiciliana

Pubblico un articolo tratto dal sito dei Comitati delle Due Sicilie

Sarebbe stato bello se ad un dato momento della giornata di ieri i due eventi, quello nostro e dell'amministrazione, fossero confluiti in uno solo, è ancora prematuro, ma certo che un guittismo gratuito di taluni borbotaleban sopraggiunti alla manifestazione a fare ammuina non aiuta sicuramente a creare le basi per una idea del genere.

Eravamo un centinaio a Borgo Cerquelle, ieri 14 agosto, in un posto non certo facile da trovare e da raggiungere, tanti esponenti dei CDS e soprattutto una gradita presenza di rappresentanti di molti movimenti meridionalisti. La presenza copiosa di firme prestigiose del meridionalismo a Pontelandolfo è stata davvero sorprendente oltre che gratificante.

Grazie a tutti voi per aver sentito il dovere di onorare i Martiri di Pontelandolfo, eravamo lì esclusivamente per commemorare quelle nostre povere vittime e niente altro.

Tra le tante soddisfazioni di ieri va registrata in particolar modo la partecipazione massiccia di tanti giovani, proprio perchè rappresentano il nostro futuro.

La giornata è stata introdotta da Valentino Romano che ha tenuto per ben un’ora una lezione ai presenti sulle reali motivazioni dell'incontro in quei luoghi a noi sacri. Poi la passeggiata sul fiume che vide lo scontro tra Cosimo Giordano e i bersaglieri di Bracci ha completato la mattinata.

Al convivio gli interventi di tanti amici ha davvero aperto alla speranza l’idea di una coalizione in comunione di intenti tra le tante sigle presenti.

Giunti nel centro cittadino pieno di autorità e agenti, chi non ha evitato poi di seguire gli esagitati e squalificanti saltimbanchi imbandierati con il glorioso vessillo borbonico si è perso la funzione religiosa. Questa faccenda della presenza inutile e dannosa di ieri a Pontelandolfo di taluni elementi, oltre al “facite ammuina” null’altro producono, è stato un danno per chi come noi tenta invece di creare le basi solide e durature di sinergia con la popolazione pondelandolfese e con le istituzioni del luogo in questione.

Ribadisco a nome dei Comitati Due Sicilie come presidente nazionale che nulla abbiamo a che vedere con i parodistici “Suonatori di Brema” presenti nella piazza di Ponteladolfo. Noi invece da quattro anni siamo e saremo presenti ogni 14 agosto nella cittadina martire dell’unità italiana solo ed esclusivamente per commemorare le vittime dell’eccidio savojardo.

Per chiudere queste note, un ringraziamento alla banda CDS per la loro volontà, un abbraccio fraterno a tutti voi: a Michele Fantaguzzi, Gianni Pisciotta, Angela Dinuzzi, Giuseppe Simonetta, Carlo Coppola, Mimmo Marazia, Luigi Costantino, Peppino Cerchia, Alfonso Vellucci, Rosaria Nappa, Nastore Spadone, Emilio Barretta, Valentino Romano, Gaetano Orefice, Giamarco Ambra, Luca Amabile, Bartolo Di Luca, Giulio Alfano, grazie, grazie, grazie 999 volte grazie.

Una speranza di rivedere anche l’anno prossimo i tanti altri amici presenti, da Pino Smiraglia capo delegazione di Insorgenza Civile a Francesco Laricchia, Osvaldo Lucera, Michele Ladisa, Antonio Dell’Omo, Gaetano Marabello, Nunzio Porzio, Andrea Casiere, Vincenzo Giannone, Antonio Di Martino, Vincenzo Marra, Ferdinando Corradini, Orazio Gnerre e tanti altri.

Un ringraziamento al maestro Alberto D’Angelo e ai gestori del Borgo Cerquelle sempre gentili e molto disponibili anche con l'imprevisto triplicarsi dei commensali.

Che Pontelandolfo viva!

Forza e onore!

Fiore Marro

mercoledì 20 luglio 2011

Porto Empedocle: Consiglio di Stato accoglie ricorso per rigassificatore

Fonte Repubblica

Una sentenza del Tar del Lazio del 2010 ne aveva interrotto la costruzione. L'Enel aveva fatto ricorso

FABIO RUSSELLO

AGRIGENTO - Il Consiglio di Stato ha accolto il ricorso di Enel e della società Nuove Energie ed ha dato il via libera al rigassificatore di Porto Empedocle. Si trattava dell'ultimo ostacolo giuridico per dare inizio ai lavori di realizzazione della infrastruttura che avrà una capacità di 8 miliardi di metri cubi l'anno. Il ricorso al Consiglio di Stato era stato presentato dall'Enel e dal Comune di Porto Empedocle dopo che il Tar del Lazio aveva dato ragione al Comune di Agrigento e ad una serie di associazioni e enti che invece contestavano il decreto che autorizzava la realizzazione del rigassificatore di Porto Empedocle e dei gasdotti di collegamento. Contro il rigassificatore si erano costituiti il Comune di Agrigento, Legambiente, Arci, Cittadinanzattiva, Italia Nostra e Codacons.
Il progetto prevede un investimento complessivo di oltre 800 milioni di euro, con lavori che dureranno quattro anni e mezzo. Il cantiere prevede inoltre l'occupazione fino a 900 persone, mentre l'impianto in esercizio necessiterà di 120 lavoratori, 200 in tutto con l'indotto.

giovedì 23 giugno 2011

Il governo Berlusconi

Dopo tre anni circa di spot pubblicitari inizia a venire galla tutto ciò che ha prodotto il governo di centro-destra. Ci ritroviamo in una situazione economica disastrosa e senza precedenti, con una crescita bassissima e una disoccupazione certamente più alta di quella sbandierata dall'esecutivo. Un esecutivo che ha già perso due volte di fila il consenso dei cittadini, che è l'unico modo per governare e perciò ci ritroviamo ad avere un governo che governa, scusate il gioco di parole, pur avendo la minoranza dei consensi.

L'agonia è iniziata quando Fini è uscito dal partito e poi ha creato la sua nuova formazione politica, Futuro e Libertà, che che però non ha ottenuto molti consensi alle elezioni. Si arriva così a Dicembre in cui Berlusconi ottiene la fiducia ma si trova ad avere una maggioranza ristretta che, fino ad oggi, è stata solo in grado di proteggere se stessa dalla dissoluzione e non è stata capace di fare quelle riforme tanto desiderate per dare un futuro dignitoso a questo paese. Tra Maggio e Giugno il governo prende, detto con le parole della lega, due sberle molto dolorose che dovrebbero far riflettere.

La magistratura sin dall'inizio della legislatura è stata sotto attacco, nonostante i cittadini tramite il referendum abbiano detto chiaramente che tutti devono essere uguali davanti alla legge, si riparte indirettamente a colpire i magistrati cercando di mettere il bavaglio alle intercettazioni telefoniche con lo scopo non dichiarato, ovviamente, di impedire che il governo venga travolto dalle inchieste sulla cosiddetta P4 e sia costretto ad andare a casa. Non so da che cosa siano motivati ad andare avanti i nostri parlamentari, forse sono spinti solo dal desiderio di far sopravvivere questo governo per cinque anni e ricevere così il vitalizio.

La lega nord è rimasta ancorata ai discorsi di vent'anni fa ma i suoi stessi elettori si sono accorti dei misfatti e infatti ha perso consensi. E' la lega che ha sempre parlato di tagliare gli sprechi ma le province non sono state tagliate e neppure i parlamentari, la crisi economica, inoltre, si è fatta sentire pesantemente nei luoghi simbolo della lega. Negli ultimi tempi la vittima è Napoli e lo è in tutti i sensi.
Per le inchieste importanti che sono partite dalla città e poi perchè il neo sindaco Luigi De Magistris, oltre ad essere un ex magistrato, è dell'Italia dei Valori quindi con Antonio Di Pietro. De Magistris che ha ottenuto il 65% dei consensi è contro la costruzione dei costosi e inquinanti termovalorizzatori e vuole, invece, che la città faccia la raccolta differenziata con guadagni economici e ambientali per gli tutti i cittadini e non per chi da anni lucra sull'emergenza rifiuti.

martedì 7 giugno 2011


Referendum, quattro sì per voltare pagina

In occasione dei quattro referendum del 12-13 Giugno, pubblico un articolo tratto dal blog di Beppe Grillo scritto da Marco Travaglio.

Sì all'acqua pubblica
La prima e la seconda scheda di cui vi voglio parlare, sono quelle che riguardano l’acqua, una è di colore rosso, l’altra è di colore giallo.
Quella di colore rosso porterà scritta una frase ostrogota nella quale si dice “Modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica” il quesito punta a abrogare l’Art. 23 bis del Decreto Legge 25 giugno 2008 N. 112 che è il cosiddetto Decreto Ronchi, in cui si parla di disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, competitività e la stabilizzazione della finanza pubblica, la perequazione tributaria che è stato poi modificato più volte nel 2009, la parola acqua in questa scheda rossa non compare mai, neanche i suoi derivati tipo idrici, idrico, eppure si parla di acqua, scheda rossa, cosa siamo chiamati a decidere? Se abrogare questa norma che prevede l’obbligatorietà della gestione privata dei servizi idrici almeno per quanto riguarda il pacchetto di maggioranza delle società che li gestiscono, il decreto è più ampio perché riguarda tutti i servizi pubblici di rilevanza economica e si stabilisce per decisione di questo governo che debbano essere i privati a avere la maggioranza nelle società che gestiscono acquedotti e affini, il pubblico può partecipare ma in minoranza, quindi la regola è che la maggioranza la debbono sempre avere dei soggetti con finalità ovviamente di lucro, profitto dei privati, o con società completamente private o con società miste pubblico – private dove però il pubblico è minoritario, quindi naturalmente si fanno le gare, si stabilisce che almeno il 40% di queste società vada a capitale privato, quindi multinazionali, finanziarie, fondi etc.. Le società quindi attualmente a totale capitale pubblico che gestiscono moltissimi acquedotti comunali etc., dovranno cessare improrogabilmente dalla loro attività entro il dicembre di quest’anno, oppure potranno continuare a gestire servizi idrici, soltanto se si trasformeranno in società miste con un capitale privato di almeno il 40%, chi vota sì cancella questa norma e cioè consente che possano continuare a essere delle società a capitale interamente pubblico o a maggioranza di capitale pubblico a gestire i servizi che ci portano l’acqua in casa e che trasportano l’acqua dalle fonti, dalle sorgenti a noi consumatori, cittadini che la dobbiamo bere, che la dobbiamo usare per le nostre esigenze personali, quindi sì vuole dire no alla privatizzazione obbligatoria dei servizi idrici, dire no invece significa confermare il Decreto Ronchi, sì all’abrogazione del Decreto Ronchi che stabilisce l’obbligatorietà di società private a gestire l’acqua, quindi non è l’acqua in sé che viene privatizzata, sono i servizi che ce la portano e naturalmente questo a cosa va incontro? Va incontro intanto al problema delle tariffe, quanto costa l’acqua? L’acqua ovviamente essendo un bene naturale dovrebbe essere di tutti perché costa? Costa sulla nostra bolletta, costa quando viene imbottigliata etc., perché c’è qualcuno che la prende e la tratta, che la porta o la imbottiglia, ci aggiunge del suo e questo è inevitabile, il costo dell’acqua è inevitabile, il problema è quanto costa l’acqua e chi decide quanto costa l’acqua? Ora come ora, almeno là dove il servizio è ancora gestito dal servizio pubblico, cioè dai comuni e dalle società pubbliche a maggioranza di capitale pubblico, c’è un controllo democratico, perché? Perché noi eleggiamo i sindaci, i Consiglieri comunali che esprimono, le giunte comunali e che a loro volta poi decidono la gestione del servizio idrico e quindi se non ci piace come lo gestiscono li possiamo bocciare e mandare a gestirlo degli altri la volta successiva. Quindi diciamo che il servizio è in qualche modo collegato al potere del popolo, alla democratica, nel caso in cui dovesse non farsi il quorum o dovesse passare il no, ma il no è praticamente impossibile che passi, il rischio è che non passi il quorum, resterebbe per un bel po’ di anni questa norma che ha fatto questo governo, secondo cui la gestione, il servizio dell’acqua non sarebbe controllabile dai cittadini perché sarebbe affidata a privati che naturalmente ci fanno i loro affari con l’acqua, questo è il tema di cui si parla nel primo quesito, naturalmente i sostenitori del no che non avendo la possibilità di far vincere il no stanno facendo campagna perché la gente vada al mare, sempre che trovi poi qualche spiaggia dove andarci, perché sapete che stanno tentando di privatizzare, anche se è un termine un po’ generico, le spiagge per 99 anni, vogliono che l’acqua sia gestita dai privati perché sostengono che i privati sono più efficienti del pubblico, e effettivamente noi sappiamo che i pubblici poteri non brillano per efficienza, i servizi pubblici spesso sono mal gestiti da gente incompetente, messa lì dai politici per ragioni clientelari e che quindi abbiamo molti acquedotti intorno ai quali nascono casi di corruzione, truffe, interessi mafiosi che si attaccano alle reti pubbliche, ci sono sabotaggi delle reti pubbliche, il caso della Sicilia dove l’acqua si disperde in mille rivoli, gli acquedotti sono dei colabrodo o addirittura non esistono e si devono portare le taniche di acque in certi comuni, parlano da sé, lo sappiamo, pubblico in Italia non è sinonimo di efficienza sempre, ma neanche privato è sinonimo di efficienza sempre, anzi se l’acqua viene sottoposta esclusivamente a regole di mercato e se l’unico scopo di chi eroga questo servizio è quello di farci dei soldi, intanto c’è da dubitare che si possano fare soldi su un bene comune come l’acqua, a che titolo uno fa soldi su un bene comune come l’acqua? E soprattutto c’è da dubitare che avrà come principale scopo quello di migliorare il servizio, spesso per migliorare il servizio bisogna fare dei grossi investimenti, bisogna spendere molti soldi e se spendi molti soldi ne guadagni di meno e quindi di solito l’imprenditoria, almeno all’italiana, ma non soltanto all’italiana lesina gli investimenti e quindi penalizza il servizio e tutto ciò lo fa al riparo dal controllo dei cittadini che invece possono andare a punire o a premiare quei comuni, quelle amministrazioni virtuose che invece magari danno un buon servizio per quanto riguarda l’erogazione dell’acqua, quindi ci sono questioni di principio e questioni anche di soldi, è un dato di fatto che in quasi tutti i paesi del mondo e in quasi tutti i comuni d’Italia dove l’acqua è passata dal controllo maggiormente pubblico al controllo maggioritaria mente privato, le bollette e le tariffe sono aumentate, perché? Perché naturalmente il privato ci deve guadagnare, mentre invece il servizio pubblico dovrebbe garantire soltanto la buona salute della società che eroga questi servizi, ma non naturalmente l’ingrassamento della società a spese dei cittadini consumatori e soprattutto a spese del servizio e degli investimenti necessari per renderlo migliore, quindi chi dice sì al referendum non è che vuole mantenere i carrozzoni pubblici, vuole che il servizio pubblico sia più efficiente e vuole che i cittadini mantengano il controllo su chi decide, chi gestisce l’acqua, cioè un bene comune.
Spiega il Prof. Riccardo Petrella del gruppo di Lisbona del Comitato istituzionale per il contratto mondiale dell’acqua, uno dei massimi esperti e dei promotori di questo referendum che l’acqua intanto è un bene comune come l’aria, l’educazione, la salute e aggiungo io l’energia e poi aggiunge che nel primo referendum si dice con chiarezza, votando sì, che non si può accettare l’obbligatorietà del soggetto privato come unico e solo gestore titolare del servizio idrico, è vero che l’esperienza delle municipalizzate a capitale pubblico è molto negativa, ma questo non vuole dire che lo Stato debba abdicare i propri compiti, lo Stato deve tornare a fare lo Stato e deve essere pubblico in quanto deve essere nell’interesse dei cittadini e deve poter essere controllato dai cittadini.
Nell’Art. 23 del Decreto Ronchi è scritto in maniera esplicita che lo Stato italiano non è abilitato a gestire il servizio unico e questo dice il Prof. Petrella è un vero e proprio rigetto dello Stato, un’assurdità lo Stato che nega sé stesso! Cosa succede se vincono i sì, potremo avere ancora l’acqua a gestione pubblica, decidendo semplicemente di eleggere in comune persone che sostengono la gestione pubblica, mentre se vince il no o non passa il quorum, avremo dappertutto obbligatoriamente i privati che la fanno da padroni nella gestione del servizio idrico, scheda rossa, primo quesito sull’acqua.
Passiamo al secondo quesito sull’acqua che è la scheda gialla, lì si parla di “Determinazione della tariffa del servizio idrico integrato in base all’adeguata remunerazione del capitale investito” e qui almeno idrico c’è, quindi si capisce che si parla di acqua nella scheda gialla, il quesito dice: volete voi che sia abrogato il comma 1 dell’Art. 154, tariffa del servizio idrico integrato del Decreto Legislativo N. 152 del 3 aprile 2006 norme in materia ambientale limitatamente alla seguente parte: dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito? Tutto ciò cosa significa in italiano? Significa che nel Codice dell’ambiente all’Art. 154, Decreto Legislativo 2006, al comma 1 quello che si vorrebbe abrogare è stabilito come devono essere calcolate le tariffe che noi cittadini paghiamo sulla bolletta per il servizio idrico, si dice che le tariffe devono obbligatoriamente tenere conto dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito, quindi cosa dicono i promotori di questo secondo referendum? Che la norma che si vuole abrogare, quella che consente ai gestori di ottenere profitti garantiti sulla tariffa, caricando sulla bolletta dei cittadini un 7% per remunerare il capitale investito senza alcun collegamento a qualunque logica di reinvestimento per il miglioramento qualitativo del servizio, non obbliga chi gestisce il servizio a fare degli investimenti per migliorare il servizio, dice che la tariffa anche se non fanno investimenti e se lasciano il colabrodo che c’è, deve garantire il 7% di utile a chi gestisce il servizio per ricompensarlo del capitale che ha investito nel costituire questa società o nel comprarsi naturalmente la gestione del servizio medesimo e quindi cancellando questa norma assurda si elimina questo cavallo di Troia che apre la strada ai privati nella gestione dei servizi idrici, perché i privati naturalmente accettano di entrare in questo servizio se hanno la garanzia di un profitto, di un utile, questo profitto gli viene assicurato addirittura obbligatoriamente per legge e quindi ci si fiondano ovviamente sull’acqua, se invece dovessero andarsi a guadagnare con il loro sudore o con i loro investimenti un profitto collegato con il lavoro che ci mettono per migliorare il servizio, magari alcuni di loro non ci si butterebbero in questo servizio, perché? Perché rischierebbero magari di non farli gli utili se non sono bravi o se hanno troppo da investire rispetto a quello che hanno da guadagnare, invece qui gli si garantisce il 7%, capito? Dice il Prof. Petrella: la nostra legge, è vero che il gestore privato deve avere una logica di profitto, è ovvio che i privati fanno impresa per guadagnarci, mica per perderci, ma la legge parla di stabilire una tariffa che prevede obbligatoriamente almeno il 7% di profitto per il privato, senza prevedere alcun obbligo di investimento, in nessuno dei paesi del mondo che consentono di dare ai privati la gestione dei servizi idrici, è prevista l’obbligatorietà del profitto, perché? Perché è come al solito il libro mercato all’italiana, dove non rischi nulla e dove guadagni a prescindere, ovviamente sulle spalle dei cittadini e del servizio, cioè dell’acqua, cancellando questa norma se ci saranno partecipazioni di privati alla gestione del servizio idrico, questi il profitto se lo dovranno andare a guadagnare in proporzione alle migliorie che porteranno a questo servizio e non perché la legge gli garantisce un minimo profitto che è semplicemente slacciato da qualunque regola di mercato e che è semplicemente il chip che noi mettiamo sul tavolo e che il privato arriva e se lo porta via, senza neanche giocare la partita, anzi neanche rischiare del proprio, questo è il secondo e ultimo quesito che riguarda il tema acqua, scheda gialla no al profitto garantito obbligatorio! Naturalmente si potrebbero dire molte altre cose sul tema dell’acqua, ne sapete meglio molti di voi che non io, l’importante è conoscere il contenuto delle varie schede, le prime due allora ricapitolando e cioè quella rossa e quella gialla, cancellano queste norme che si sono stratificate sotto l’ultimo governo Berlusconi nel 2006/2008/2009 per dare in mano ai gestori privati i servizi idrici.


Sì all'abolizione del nucleare
Terza scheda, la scheda grigia è quella sul nucleare, qui sono successi pasticci di ogni genere, perché?Perché intanto quando Di Pietro ha cominciato a raccogliere le firme due o tre anni fa, era stato appena presentato il Piano Scajola per la costruzione di 4 centrali nucleari, ciascuna con due reattori nucleari, quindi 8 reattori nucleari, la Confindustria calcolò che ci volessero 50 miliardi adesso Euro per costruire queste 4 centrali, immaginate quanti decenni ci sarebbero voluti per ammortizzare un investimento di quel genere e soprattutto si doveva anche decidere dove metterle, ma il governo ci aveva fatto la campagna elettorale sopra al ritorno al nucleare, infischiandosene del fatto che nel 1987 la stragrande maggioranza degli italiani avevano detto no al nucleare in un referendum promosso dagli ambientalisti ma anche dai socialisti di Craxi, per cui quando Berlusconi parla di comunisti è assurdo, tutti i partiti alla fine dissero di essere favorevoli a quel referendum, tranne i pubblicani di Spadolini che rappresentavano il 3% del Parlamento italiano, persino i missini, il movimento sociale disse sì al referendum che abrogava il nucleare, dopo 24 anni, oggi, siamo di fronte a un bivio, perché? Perché il governo non ha mai cancellato quell’impegno anche se ha fatto finta di farlo, Di Pietro 3 anni fa comincia a raccogliere le firme, tutti lo prendono in giro, gli dicono: tanto non ci sarà mai il quorum, sei matto, regali a Berlusconi la possibilità di dire “ho vinto” anche se ha perso solo perché non si è fatto il quorum, invece Di Pietro va avanti, raccoglie le firme e poi succede l’incidente di Fukushima che porta il tema del nucleare al centro della scena non soltanto politica ma soprattutto dell’attenzione dell’opinione pubblica, tutta l’Europa direbbero i nostri Ministri ineffabili, si fa prendere dall’emotività, no non si fa prendere dall’emotività, scopre che ancora nel 2011 non esiste il nucleare sicuro, scopre che tutte le rassicurazioni sulle altissime tecnologie giapponesi in realtà poi di fronte alla furia della natura evaporano, quindi fa i conti con tutto ciò, il che non esclude che in un futuro si possa inventare veramente il nucleare pulito, quello che nasce dalla fusione fredda, per esempio, ma non mi voglio inoltrare in questi tecnicismi perché non sono un tecnico.
Nel frattempo in questo momento si sa che il nucleare sicuro, pulito non esiste! Perché esista dovrebbero succedere molte cose che non sono successe, ecco perché la gente allarmata anche da Fukushima decide di protestare, in tutto il mondo e tutti i governi rispondono all’opinione, non all’emotività, alla giusta preoccupazione, il principio di precauzione dice che se c’è una cosa pericolosa tu devi cercare di non tarla, non devi semplicemente dire: la facciamo e mettiamo in conto i rischi, soprattutto se ci sono delle alternative per nulla rischiose o molto meno rischiose, questo è il tema che ha indotto governi di destra come quello di Angela Merkel in Germania, governi che sfuggono alle nostre categorie mentali come quello svizzero a cancellare il futuro nucleare per i loro paesi e puntare su altri tipi di approvvigionamento energetico che nel frattempo naturalmente hanno fatto passi da gigante e ne faranno altri nel futuro.
Ecco quindi che quel referendum diventa il detonatore perché dato che la gente è molto vigile sul tema del nucleare e non vuole il ritorno al nucleare in Italia, si presume, questa era la previsione del governo italiano, che andrà in massa a votare anche se si mette il referendum il 12/13 giugno quando ci sono già i weekend di vacanza e quindi questo referendum trascinerà gli altri, portando molto probabilmente il quorum per tutti i referendum e allora il governo si attiva per depotenziare il referendum sul nucleare per dire: state tranquilli quel referendum è inutile perché ci pensiamo noi a sospendere la Legge Scajola e la progettazione e l’iter che porterebbe alla costruzione di quelle nuove 4 centrali nucleari, quindi non andate a votare perché tanto ci ha già pensato il governo a sospendere sine die il nucleare e fanno quel decreto omnibus che è diventato l’obbligo del quesito della scheda grigia sul nucleare, perché ha riformulato l’orientamento del governo rispetto a quello della Legge Scajola, quindi se Di Pietro aveva raccolto le firme contro la Legge Scajola che prevedeva le 4 nuove centrali nucleari con 8 reattori, il governo fa il Decreto omnibus per dire quello che intende fare dopo Fukushima sul nucleare, sostiene il governo, non ci sarà più il nucleare per un po’ di tempo, sostengono i promotori del referendum: hai fatto il furbo, perché hai lasciato aperta la strada al nucleare, proprio mentre dicevi che la chiudevi fino a nuovo ordine.
Dato che la Corte Costituzionale fin dal 1978, credo, ha stabilito che per far saltare un referendum non basta cambiare la legge che i promotori volevano abrogare con la loro raccolta di firme, ma bisogna proprio eliminare tutti i principi ispiratori della legge che si vuole abrogare, se tu lasci in piedi il principio ispiratore, lasci aperto uno spiraglio al nucleare, allora il referendum è buono e il quesito abrogativo si trasferisce sulla nuova legge che modifica quella vecchia e è quello che ha fatto la settimana scorsa la Cassazione riformulando il quesito perché? Perché la nuova norma, il Decreto omnibus non è zuppa, è pan bagnato rispetto alla Legge Scajola e allora il quesito riformulato dalla Corte di Cassazione dice così: abrogazione delle nuove norme che consentono la produzione nel territorio nazionale di energia elettrica nucleare e il testo dice: volete che siano abrogati i commi 1 e 8 dell’Art. 5 del Decreto Legge 31/3/2011 34 convertito con modificazioni dalla legge 26/05/2011 N. 75? La parola nucleare per fortuna nella scheda grigia c’è, anche se è annegata in quel mare magnum di burocratese, quindi cosa abroghiamo noi? Abroghiamo se votiamo sì il Decreto omnibus nella parte in cui dice sospendiamo per un anno il progetto nucleare e poi vedremo alla luce di nuove tecnologie, orientamenti europei, supercazzole varie il da farsi, dopodiché deciderà il Presidente del Consiglio in persona se fare il nucleare o se invece, nel nuovo piano energetico nazionale inserire soltanto altre fonti, quelle rinnovabili e non, ma senza il nucleare.
Quindi il Decreto Omnibus dà al Presidente del Consiglio il potere tra un anno di decidere di riaprire il discorso nucleare che il referendum invece vuole chiudere per sempre, c’è anche una norma che consente di espropriare i terreni dei privati per potervi costruire nuove centrali nucleari anche da parte di imprese private, se non è far rientrare dalla finestra il nucleare che era stato fatto uscire dalla porta, ditemi voi, la Cassazione comunque ha capito bene, il Governo ha fatto ricorso alla Corte Costituzionale che domani si dovrebbe pronunciare e come si pronuncerà l’ha già fatto intuire il nuovo Presidente Quaranta che appena eletto stamattina ha dichiarato: vedremo domani ma non vedo come possa la Corte Costituzionale bloccare un referendum, meno male, anche se forse non spetterebbe al Presidente della Consulta anticipare le decisioni della Consulta, però ci ha fatto capire più o meno qual è il suo orientamento di Presidente della Corte Costituzionale, quindi se si vota sì non potranno essere inserite centrali nucleari nel nuovo piano energetico nazionale, quindi spariscono quei progetti per gli 8 reattori su 4 centrali, ci saranno altre fonti di energia come quelle che sorreggeranno le forniture energetiche in Germania, Svizzera, in altri paesi che hanno rinunciato al nucleare, naturalmente conosciamo cosa dicono quelli del no, dicono: abbiamo 58 centrali in Francia, molte delle quali proprio al di là delle Alpi, se esplodono quelle noi comunque ci becchiamo le radiazioni lo stesso, allora perché comprare energia dalla Francia quando potremmo produrla con lo stesso sistema noi in Italia? E’ un ragionamento a cazzo, come dire: dato che ho il vicino di casa piromane, do fuoco a casa mia io personalmente, così lo frego perché arrivo prima di lui, ma stiamo scherzando? Senza contare il fatto che già è grave se c’è un incidente nucleare al di là delle Alpi, ma è ancora più grave se c’è al di qua delle Alpi, perché qua ce l’abbiamo in casa, mentre la Francia è un po’ più lontana, non dimentichiamo che la catastrofe di Fukushima ha prodotto comunque l’evacuazione della popolazione in un raggio di 30 chilometri, non stiamo parlando di territori sterminati, certo poi un po’ di radiazioni arrivano anche oltre i 30 chilometri, ma intanto il pericolo di sopravvivenza in un disastro di quelle proporzioni è limitato, si è detto, a 30 chilometri, quindi contano molto le distanze, la Francia, le Alpi che ci proteggono, quindi comunque non c’è paragone tra il danno che farebbe una centrale che esplode in Italia e quello che potrebbe fare all’Italia una centrale che esplode in Francia, poi si dice che l’energia nucleare costa meno delle altre, beh a regime ovviamente, questo vale per un paese che le ha già le centrali nucleari, ma non vale per un paese che non le ha più e che le deve ricostruire e che ci costerebbe un’ira di Dio, decine e decine di miliardi come ha stabilito non Greenpeace, la Confindustria quando fu annunciato il Piano Scajola e poi c’è il problema naturalmente delle scorie, noi abbiamo ancora le scorie delle centrali nucleari pre 1987 a ridosso di fiumi e torrenti tipo a Saluggia e non sappiamo cosa farne, dove metterle, come smaltirle e come neutralizzarne i possibili effetti nefasti perché semplicemente il nucleare è per sempre!
Le scorie sono per sempre, sono ineliminabili, i reattori una volta accesi non si spengono più, quindi anche loro sono per sempre, pensate al caso di Chernobyl dove hanno costruito questo sarcofago in cemento che si crepa e comunque non può impedire che tutto intorno si continuino a sprigionare radiazioni micidiali come ha mostrato il bellissimo servizio di Corrado Formigli l’altra sera, quindi cambia un po’ quello che deve fare un paese che per sua fortuna non ha più il nucleare da 24 anni, rispetto a un paese che ce l’ha e che lo deve dismettere, noi abbiamo la fortuna di non averlo e mentre gli altri, molti altri, alcuni importanti altri paesi come la Germania e la Svizzera si fermano, noi vogliamo ripartire, una follia totale che ci costerebbe molto di più, visti i costi di costruzione delle centrali e che naturalmente ci porterebbero come in tutti i paesi che hanno le centrali nucleari, dei pericoli che derivano dalle scorie, dai guasti e che possono derivare da eventi catastrofi naturali, siamo il paese più sismico d’Europa, le uniche aree ritenute meno insicure dal punto di vista dei terremoti, cioè la Pianura Padana e la Sardegna sono amministrate dal centro-destra, bene, il governatore della Sardegna Cappellacci Pdl, il Governatore del Veneto Zaia, Lega, il governatore della Lombardia Formigoni Pdl hanno già detto che loro nel loro territorio le centrali non le vogliono, allora dove le mettiamo? Le mettiamo in Abruzzo dove siamo reduci da un terremoto devastante? Le mettiamo in Sicilia dove i terremoti sono all’ordine del giorno? Questo è anche un problema pratico, senza contare che coloro che ci avvertono forse esagerando ma non è mai troppa la precauzione della possibilità di nuovi attentati terroristici sull’esempio delle due torri, beh provate a immaginare se a qualcuno venisse in mente di dirottare un aereo non sulle due torri gemelle, ma su una centrale nucleare cosa potrebbe succedere, mi pare che ce ne sia a sufficienza e se poi non ce ne è a sufficienza leggetevi quello che dice Carlo Rubia che ha dovuto andare all’estero per portare le sue idee e i suoi progetti, visto che in Italia ci fidiamo di esperti come quelli che avete visto a Anno Zero che negano addirittura che a Chernobyl sia successo qualcosa o altri esperti come Chicco Testa che si mettono a disquisire sul fatto che sì ci sono 4500 bambini malati di tumore ma non sono tutti morti, quindi vuoi mettere la soddisfazione di avere un bambino malato di tumore che però non è ancora morto.
Visto che il livello dei nostri esperti sostenitori del no è questo, magari fidiamoci dell’unico Premio Nobel per la fisica italiano che abbiamo vivente e che naturalmente è costretto a operare fuori dall’Italia perché in Italia è considerato un pericoloso sovversivo, quindi votando sì diciamo: basta al nucleare per un bel po’ di anni, a meno che un giorno non ci portino finalmente le prove di un sistema per produrre energia dall’atomo che non abbia tutti gli effetti collaterali e i rischi collaterali che abbiamo fin qui descritto, scheda grigia nucleare.


Sì alla legge uguale per tutti
L’ultima scheda è quella verde e riguarda il legittimo impedimento, anche qua la parola impedimento per fortuna compare in un mare magnum naturalmente di burocratese.Il referendum è intitolato “Abrogazione di norme della legge 7 aprile 2010 N. 51 in materia di legittimo impedimento del Presidente del Consiglio dei Ministri e dei Ministri a comparire in udienza penale, quale risultante a seguito della sentenza N. 23/11 della Corte Costituzionale” e il quesito dice: volete voi che siano abrogati l’Art. 1 commi 1, 3, 5, 6 nonché l’Art. 2 della Legge 7 apre 2010 N. 51 recante disposizioni in materia di impedimento a comparire in udienza? Risposta che do io, almeno anche in questo caso sì, cosa vuole dire tutta questa pappardella? Vuole dire che l’anno scorso la Legge Alfano ha stabilito che il Presidente del Consiglio e i suoi Ministri per il solo fatto di essere membri del Governo, hanno diritto a non comparire in udienza per una durata di un anno e mezzo, 6 mesi più 6 mesi, più 6 mesi e il giudice deve fidarsi dell’autocertificazione che loro depositano tramite i loro Avvocati, in cui si dice: tizio imputato è Ministro, tizio imputato è Presidente del Consiglio, quindi per un anno e mezzo non ha tempo, quindi non convocatelo il processo lo si fa tra un anno e mezzo, perché hanno detto tra un anno e mezzo? Perché era una norma a ponte in vista di una norma definitiva che era il Lodo Alfano costituzionale che avrebbe dovuto immunizzare questi personaggi per tutta la durata dell’incarico, poi la legge costituzionale non l’hanno fatta, è rimasto questo abortino, è stato un po’ tagliuzzato dalla Corte Costituzionale del gennaio di quest’anno, quando la Corte ha stabilito che non c’è un automatismo, il fatto che tu sei Ministro o Presidente del Consiglio, ti consente di stare lontano dal Tribunale per un anno e mezzo, ti consente di stare lontano dal Tribunale quando hai degli impegni di governo e decide il giudice di volta in volta se quegli impegni li hai e se corrispondono a un legittimo impedimento speciale così come previsto dalla Legge Alfano, allora qualcuno di voi dirà: ma non c’è più bisogno di votare in questo referendum perché già la Corte Costituzionale il legittimo impedimento gliel’ha fatto a pezzi, no bisogna votare, intanto per una questione di principio, non si vede perché uno perché è Ministro o Presidente del Consiglio deve essere più uguale degli altri, visto che la nostra Costituzione stabilisce che solo per i reati ministeriali commessi nell’esercizio delle funzioni di governo c’è un trattamento a parte, si viene giudicati dal Tribunale per i reati ministeriali previa autorizzazione del Parlamento, per i reati comuni siamo tutti uguali e è esperienza quotidiana vedere i Ministri e il Presidente del Consiglio che fanno tutto quello che vogliono, vanno alle partite, vanno di qua, vanno di là, giustamente hanno un sacco di tempo libero anche loro e quindi una parte di quel tempo libero se sono imputati la dedicano al giudice e decide il giudice se l’impedimento è reale e decide il giudice se è legittimo, altrimenti cosa fa? Mica li fucila, semplicemente tiene l’udienza in assenza di questi signori che non si sono presentati, è un modo per evitare che usino l’impegno ministeriale per allungare il brodo del processo e non farlo mai arrivare alla fine.
Fatto che il giudice decida di volta in volta, vuole dire che si apre un contenzioso infinito tra il giudice e gli avvocati che faranno mille ricorsi contro ogni decisione del giudice che dice no, non era legittimo impedimento, i difensori dicono: sì era legittimo, allora si rivolgono alla Corte d’Appello, alla Corte di Cassazione, alla Corte Costituzionale e ricusano il giudice e chiedono di trasferire il processo perché a Milano ce l’hanno tutti con il loro cliente etc., se non si mette fine a questo aborto del legittimo impedimento, processare il Premier e i suoi Ministri sarà impossibile come, anche con i tagliuzzini che ha fatto la Corte Costituzionale, radiamo al suolo quello che rimane del legittimo impedimento Alfano e facciamo in modo che il Presidente del Consiglio e i suoi Ministri vengano processati, se sono imputati, come comuni cittadini, se hanno qualcosa di importantissimo da fare non c’è problema, stabiliscono insieme al Giudice il calendario delle giornate in cui sono liberi, dopodiché dopo aver dato disponibilità in quei giorni fisseranno i Consigli dei Ministri in giorni in cui non hanno i processi o viceversa nei giorni in cui ci sono i Consigli dei Ministri non verranno fissati i processi, leale collaborazione tra poteri dello Stato, invece adesso anche la versione dimagrita del legittimo impedimento dopo che la Corte Costituzionale lo ha tagliuzzato, consente una guerriglia permanente nei processi al Primo Ministro e ai suoi Ministri, aggiungo che non c’è nessun paese al mondo dove i membri del governo godano di particolari privilegi rispetto agli altri cittadini, anzi ci sono paesi come la Francia, dove il Primo e il Primo Ministro non sono parlamentari e quindi non hanno neanche l’immunità che hanno i parlamentari, possono essere arrestati, perquisiti, intercettati e indagati anche per i reati di opinione, cosa che invece per il parlamentare non è, quindi il Ministro ha meno garanzie del parlamentare, non di più, noi saremmo l’unico paese dove il fatto di essere Presidente del Consiglio e di essere Ministro, ti dà un bonus per avere la quasi certezza di non essere processato, quindi votando sì si cancella questa porcheria, non fatevi fregare da chi vi dice che la legge ormai è svuotata dalla Corte e che quindi il referendum è inutile.
Il fatto che Berlusconi dica che i referendum sono inutili, è la migliore dimostrazione che sono utilissimi e siccome lui punta al no, ma dato che sa che il no non vincerebbe, punta all’astensione, il modo migliore per rispondergli che li riteniamo utili è quello di votare sì, questa era la scheda verde.

Quindi sì al rosso, cioè no ai privati obbligatoriamente maggioritari a gestire l’acqua pubblica, sì al giallo, cioè no all’obbligo di profitto di almeno il 7% per i privati che prendono in mano i servizi idrici, sì al grigio, cioè no alle nuove centrali nucleari nel futuro piano energetico nazionale, sì al verde cioè no a un trattamento privilegiato di Ministri e del Capo del Governo quando sono sotto processo, la legge è uguale per tutti! Se volete ulteriori informazioni sul nucleare c’è questo bel libro di Grillo “Speciale, spegniamo il nucleare. Manuale di sopravvivenza alle balle atomiche” se volete un altro viatico e un altro incentivo per il raggiungimento del quorum e anche un sincero divertimento per quello che racconta leggete Il Fatto Quotidiano di domani dove avremo un altro pezzo molto bello di Adriano Celentano, domenica e lunedì ci vediamo alle urne e andiamo tutti a votare, io personalmente voto sì, passate parola!

martedì 12 aprile 2011



Unità, “Via il segreto di Stato sul Sud”

Importante passo avanti verso la verità storica dell’Unità di Italia, per anni coperta dal segreto di Stato.
Il Consiglio regionale della Campania ha approvato all’unanimità l’ordine del giorno per far rimuovere quello che, a tutti gli effetti, resta un ‘Segreto di Stato’ su 150.000 documenti relativi al Mezzogiorno d’ Italia, nel periodo fra il 1860 e il 1870. La Giunta regionale si è impegnata a fare da tramite presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Parlamento affinchè si chiarisca, una volta per tutte, cosa effettivamente sia successo in quel periodo su cui esistono contrastanti ricostruzioni storiche.

Lo ha annunciato Anita Sala, consigliere regionale campano dell’Italia dei Valori e promotrice dell’ordine del giorno.

”A 150 anni dall’Unita’ d’Italia, il Sud ritiene che non possa più reggere l’ impossibilita’ di conoscere quei fatti avvenuti fra gli anni 1860 e 1870. Ancora oggi in diverse realtà del Mezzogiorno e anche della Regione Campania, è aperta una discussione culturale tesa ad una rilettura più puntuale del processo di unificazione nazionale che in particolare ha interessato il meridione. Su tale problematica appare però che non esista ancora la voglia di fare opportuna chiarezza. Pertanto, nonostante interrogazioni parlamentari e solleciti, 150.000 pagine della nostra storia rimangono ancora prive di visibilità. Al Sud si nega dunque l’occasione – conclude Sala – di poter accedere a quelle pagine che potrebbero raccontare la vera storia”.

Quante pagine come quella dell’eccidio di Pontelandolfo restano ancora secretate? Più volte abbiamo scritto su Il Sud della necessità di rivedere l’Unità, anche per restituire dignità alle migliaia di persone trucidate dalle truppe garibaldine o piemontesi. Sarebbero opportune azioni anche dal “basso”, dal popolo per chiedere che l’indegno segreto di Stato che ha condizionato la storia degli ultimi 150 anni venga rimosso. Ma a chi interessa? Vuoi vedere che i meridionali non sono così terroni come li hanno descritti?

Fonte: Il Sud

giovedì 7 aprile 2011



In Sicilia qualcosa si muove...

Non sono solo i leghisti a volere leggi e decreti per tutelare e valorizzare le proprie tradizioni, tranne i soliti i spot pubblicitari per l'inesistente e mai esistita "padania" e in particolare per il periodo elettorale.
Il parlamento siciliano si dà da fare e propone l'insegnamento, nelle scuole di ogni grado, di quello che loro definiscono "dialetto siciliano" anche se è a tutti gli effetti una lingua, che però i signori di palazzo si ostinano a riconoscere come tale per evitare che ciò spiani la strada prima per l'emancipazione e poi per l'indipendenza della Sicilia.
Ogni qual volta che i siciliani cercano di fare qualcosa di buono vengono ostacolati per mantenerli allo stato brado; ora vedremo cosa si inventeranno massoneria & co. per impedire tutto ciò.

Fonte Repubblica

Il siciliano si studierà a scuola ma gli scrittori bocciano la legge.

La commissione Cultura del parlamento regionale approva un disegno di legge che prevede lezioni di dialetto in ogni istituto di ordine e grado. Scettici gli autori dell'Isola. Consolo: "Una bella regressione sulla scia dei lumbard". Camilleri: "Salvaguardiamo l'italiano"
di TANO GULLO

Il dialetto, quello che una volta in classe veniva censurato a suon di bacchettate, non è più un tabù e tra poco potrebbe diventare materia scolastica a tutti gli effetti. La proposta di legge che porta la firma di Nicola D'Agostino, dell'Mpa, approvata ieri all'unanimità dalla commissione Cultura del Parlamento regionale - che prevede per due ore a settimana "la valorizzazione e l'insegnamento della storia, della letteratura e della lingua siciliane nelle scuole di ogni ordine e grado" - ha scatenato subito una ridda di polemiche.

Il più critico è lo scrittore Vincenzo Consolo, il quale vede in questa iniziativa una deriva leghista: "Ormai siamo alla stupidità. Una bella regressione sulla scia dei "lumbard". Che senso hanno i regionalismi e i localismi in un quadro politico e sociale già abbastanza sfilacciato? Abbiamo una grande lingua, l'italiano, che tra l'altro è nata in Sicilia: perché avvizzirci sui dialetti? Io sono per la lingua italiana, quella che ci hanno insegnato i nostri grandi scrittori, e tutto ciò che tende a sminuirla mi preoccupa".

Andrea Camilleri, che dal dialetto ha attinto a piene mani per caratterizzare i personaggi che orbitano intorno al commissario Montalbano, guarda con attenzione ma anche con cautela al disegno di legge che a maggio potrebbe essere approvato dal Parlamento siciliano: "Se rimane entro certi limiti e non asseconda istinti leghisti, va bene. Per essere chiari, sarebbe deleterio legiferare l'obbligatorietà del dialetto. Abbiamo una lingua, l'italiano, che al 90 per cento è stata l'artefice dell'unificazione del Paese, e dobbiamo salvaguardarla. I dialetti sono una grande risorsa per la lingua madre e tali devono restare. Esistono solo perché c'è un idioma condiviso da tutti. Ad esempio, invece di saccheggiare le lingue straniere, basti vedere l'abuso di anglismi oggigiorno, potremmo attingere ai nostri dialetti per innervare l'italiano e per salvare la nostra memoria. Ed è quello che io faccio nei miei romanzi".

Via libera da Enzo Sellerio: "Mi sembra una cosa giusta. Il dialetto e l'approfondimento della nostra storia sono un argine al dissolvimento della memoria. Abbiamo bisogno di tramandare quel che siamo stati e siamo. A patto però di non dimenticare che la Sicilia è parte di un contesto più ampio e, soprattutto, che questo insegnamento non sia a scapito della lingua e della storia d'Italia".

Il più insigne linguista siciliano, Giovanni Ruffino, docente alla facoltà di Lettere a Palermo, esprime grandi perplessità sulle procedure: "Chi hanno consultato gli estensori della legge? Non mi risulta che abbiano coinvolto gli specialisti o il mondo della scuola, il che non depone certo a loro favore. Le problematiche linguistiche e scolastiche non si possono affrontare a cuor leggero. E allora, bene l'iniziativa, ma a patto che ora si proceda con gli strumenti della scientificità. Negli anni Ottanta una legge che introduceva lo studio della cultura e della lingua siciliana nelle scuole durò cinque anni, poi non venne rifinanziata e cadde nel vuoto. La nuova norma potrà funzionare se i docenti verranno formati adeguatamente e se il "siciliano" non verrà relegato in una nicchia".

Ruffino, che all'Università argentina di Rosario sta mettendo a fuoco una disciplina sulla cultura siciliana, aggiunge: "Lo studio del dialetto e della nostra identità deve attraversare ogni disciplina, deve coinvolgere, oltre alla storia e alla lingua, anche le scienze e il resto".

L'onorevole D'Agostino è convinto che la legge verrà approvata entro l'estate: "Non comporta alcun aggravio di spese - dice - e poi c'è una convergenza trasversale in aula. Tra l'altro, senza stravolgere nulla, potremmo usufruire del 20 per cento del monte ore scolastico che la legge Moratti prevede per l'autonomia didattica dei vari istituti. Questa legge ci consentirà di conoscere meglio la Sicilia, la sua lingua e di approfondire alcuni aspetti controversi della nostra storia. La storia, a cominciare dall'Unità d'Italia, non è come ce l'hanno raccontata, ed è giusto quindi agire per riappropriarci di quel che ci spetta".

Argomenti che suscitano il dubbio di Consolo: "Non è che con questa legge si vuole aprire una breccia per dare la stura a un pernicioso revisionismo?".

domenica 27 marzo 2011



L'insabbiamento culturale della "Questione Meridionale"

Molti storici in epoca moderna hanno fatto luce sugli eventi che hanno caratterizzato l'unità d'Italia dimostrando, con certezza, che la cultura di "regime" stese, dai primi anni dell'unità, un velo pietoso sulle vicende "risorgimentali" e sul loro reale evolversi.

Tutte le forme d'influenza sulla pubblica opinione furono messe in opera, per impedire che la sconfitta dei Borboni o la rivolta del popolo meridionale si colorasse di toni positivi.

Si cercò di rendere patetica e ridicola la figura di Francesco II - il "Franceschiello" della vulgata – arrivando alla volgarità di far fare dei fotomontaggi della Regina Maria Sofia in pose pornografiche, che furono spediti a tutti i governi d'Europa e a Francesco II stesso, il quale, figlio di una "santa" e allevato dai preti, con ogni probabilità non aveva mai visto sua moglie nuda nemmeno dal vivo. Risultò, in seguito, che i fotomontaggi erano stati eseguiti da una coppia di fotografi di dubbia fama, tali Diotallevi, che confessarono di aver agito su commissione del Comitato Nazionale; la vicenda suscitò scalpore e, benché falsa, servì allo scopo di incrinare la reputazione dei due sovrani in esilio.

La memoria di Re Ferdinando II, padre di Francesco, fu infangata da accuse di brutalità e ferocia: gli fu scritto dal Gladstone – interessatamente - d'essere stato - lui cattolicissimo - "la negazione di Dio".

Soprattutto si minimizzò l'entità della ribellione che infiammava tutto il l'ex Regno di Napoli, riducendolo a "volgare brigantaggio", come si legge nei giornali dell'epoca (giornali, peraltro, pubblicati solo al nord in quanto la libertà di stampa fu abolita al sud fino al 31 dicembre 1865); nasce così la leggenda risorgimentale della "cattiveria" dei Borboni contrapposta alla "bontà" dei piemontesi e dei Savoia che riempirà le pagine dei libri scolastici.

Restano a chiarire le motivazioni che hanno indotto gli ambienti accademici del Regno d'Italia prima, del periodo fascista e della Repubblica poi, a mantenere fin quasi ai giorni nostri, una versione dei fatti così lontana dalla verità.

A mio parere le ragioni sono composite, ma riconducibili ad un concetto che il D'Azeglio enunciò nel secolo scorso "Abbiamo fatto l'Italia, adesso bisogna fare gli Italiani", e possono essere esemplificate nel seguente modo:

a. Il mondo della cultura post-unitaria si adoperò per sradicare dalla coscienza e dalla memoria di quelle popolazioni che dovevano diventare italiane, il modo piratesco e cruentisissimo con il quale l'unità si ottenne, ammantando di leggende "l'eroico" operato dei Garibaldini (che sarebbero stati, nonostante tutto, schiacciati prima o poi dall'esercito borbonico), sminuendo il fatto che la reale conquista del meridione fu ottenuta, in realtà, dall'esercito piemontese, attraverso le vicende della guerra civile - nonostante la formale annessione al Regno di Piemonte - e tacendo, soprattutto, la circostanza che le popolazioni del sud, salvo una minoranza di latifondisti ed intellettuali, non avevano nessuna voglia di essere "liberate" e anzi reagirono violentemente contro coloro i quali, a ragione, erano considerati invasori.
Per contro si diede della deposta monarchia borbone un'immagine traviata e distorta, e del '700 e '800 napoletano la visione, bugiarda, di un periodo sinistro d'oppressione e miseria dal quale le genti del sud si emanciperanno, finalmente, con l'unità, liberate dai garibaldini e dai piemontesi dalla schiavitù dello "straniero".

b. Il Ministero della Pubblica Istruzione e della cultura popolare del periodo fascista, proteso com'era al perseguimento di valori nazionalistici e legato a filo doppio alla dinastia Savoia, non ebbe, per ovvi motivi, nessuna voglia di tipo "revisionista", riconducendo anzi l'origine della nazione al periodo romano e saltando a piè pari un millennio di storia meridionale. Il governo fascista ebbe l'indiscutibile merito di cercare di innescare un meccanismo di recupero economico della realtà meridionale, ma da un punto di vista storico insabbiò ancor di più la questione meridionale, ritenendola inutile e dannosa nell'impianto culturale del regime.

c. La Repubblica Italiana, nel dopoguerra, mantenne intatto, in sostanza, l'impianto di pubblica istruzione del periodo fascista.

La nazione emergeva, non bisogna dimenticarlo, da una guerra civile, nella quale le fazioni in lotta avevano, con la Repubblica di Salò, diviso in due l'Italia, il movimento indipendentista siciliano era in piena agitazione (erano gli anni delle imprese di Salvatore Giuliano), non era certamente il momento di sollevare dubbi sulla veridicità della storia risorgimentale e alimentare così tesi separatiste.

Si è arrivati in questo modo ai giorni nostri, dove ancora adesso, in molti libri scolastici, la storia d'Italia e del meridione in particolare è vergognosamente mistificata.

In campo economico la visione che si dette del Regno delle due Sicilie fu, se possibile, ancora più lontana dalla realtà effettuale.

Il Sud borbonico, come ci riporta Nicola Zitara era: "Un paese strutturato economicamente sulle sue dimensioni. Essendo, a quel tempo, gli scambi con l'estero facilitati dal fatto che nel settore delle produzioni mediterranee il paese meridionale era il piú avanzato al mondo, saggiamente i Borbone avevano scelto di trarre tutto il profitto possibile dai doni elargiti dalla natura e di proteggere la manifattura dalla concorrenza straniera. Il consistente surplus della bilancia commerciale permetteva il finanziamento d'industrie, le quali, erano sufficientemente grandi e diffuse, sebbene ancora non perfette e con una capacità di proiettarsi sul mercato internazionale limitata, come, d'altra parte, tutta l'industria italiana del tempo (e dei successivi cento anni). (...) Il Paese era pago di sé, alieno da ogni forma di espansionismo territoriale e coloniale. La sua evoluzione economica era lenta, ma sicura. Chi reggeva lo Stato era contrario alle scommesse politiche e preferiva misurare la crescita in relazione all'occupazione delle classi popolari. Nel sistema napoletano, la borghesia degli affari non era la classe egemone, a cui gli interessi generali erano ottusamente sacrificati, come nel Regno sardo, ma era una classe al servizio dell'economia nazionale".

In realtà il problema centrale dell'intera vicenda è che nel 1860 l'Italia si fece, ma si fece malissimo. Al di là delle orribili stragi che l'unità apportò, le genti del Sud patiscono ancora ed in maniera evidentissima i guasti di un processo di unificazione politica dell'Italia che fu attuato senza tenere in minimo conto le diversità, le esigenze economiche e le aspirazioni delle popolazioni che venivano aggregate.

La formula del "piemontismo", vale a dire della mera e pedissequa estensione degli ordinamenti giuridici ed economici del Regno di Piemonte all'intero territorio italiano, che fu adottata dal governo, e i provvedimenti "rapina" che si fecero ai danni dell'erario del Regno di Napoli, determinarono un'immediata e disastrosa crisi del sistema sociale ed economico nei territori dell'ex Regno di Napoli e il suo irreversibile collasso.

D'altronde le motivazioni politiche che avevano portato all'unità erano – come sempre accade – in subordine rispetto a quelle economiche.

Se si parte dall'assunto, ampiamente dimostrato, che lo stato finanziario del meridione era ben solido nel 1860, si comprendono meglio i meccanismi che hanno innescato la sua rovina.

Nel quadro della politica liberista impostata da Cavour, il paese meridionale, con i suoi quasi nove milioni di abitanti, con il suo notevole risparmio, con le sue entrate in valuta estera, appariva un boccone prelibato.

L'abnorme debito pubblico dello stato piemontese procurato dalla politica bellicosa ed espansionista del Cavour (tre guerre in dieci anni!) doveva essere risanato e la bramosia della classe borghese piemontese per la quale le guerre si erano fatte (e alla quale il Cavour stesso apparteneva a pieno titolo) doveva essere, in qualche modo, soddisfatta.

Descrivere vicende economiche e legate al mondo delle banche e della finanza, può risultare al lettore, me ne rendo conto, noioso, ma non è possibile comprendere alcune vicende se ne conoscono le intime implicazioni.

Lo stato sabaudo si era dotato di un sistema monetario che prevedeva l'emissione di carta moneta mentre il sistema borbonico emetteva solo monete d'oro e d'argento insieme alle cosiddette "fedi di credito" e alle "polizze notate" alle quali però corrispondeva l'esatto controvalore in oro versato nelle casse del Banco delle Due Sicilie.

Il problema piemontese consisteva nel mancato rispetto della "convertibilità" della propria moneta, vale a dire che per ogni lira di carta piemontese non corrispondeva un equivalente valore in oro versato presso l'istituto bancario emittente, ciò dovuto alla folle politica di spesa per gli armamenti dello stato.

In parole povere la valuta piemontese era carta straccia, mentre quella napolitana era solidissima e convertibile per sua propria natura (una moneta borbonica doveva il suo valore a se stessa in quanto la quantità d'oro o d'argento in essa contenuta aveva valore pressoché uguale a quello nominale).

Quindi cita ancora lo Zitara: "Senza il saccheggio del risparmio storico del paese borbonico, l'Italia sabauda non avrebbe avuto un avvenire. Sulla stessa risorsa faceva assegnamento la Banca Nazionale degli Stati Sardi. La montagna di denaro circolante al Sud avrebbe fornito cinquecento milioni di monete d'oro e d'argento, una massa imponente da destinare a riserva, su cui la banca d'emissione sarda - che in quel momento ne aveva soltanto per cento milioni - avrebbe potuto costruire un castello di cartamoneta bancaria alto tre miliardi. Come il Diavolo, Bombrini, Bastogi e Balduino (titolari e fondatori della banca, che sarebbe poi divenuta Banca d'Italia) non tessevano e non filavano, eppure avevano messo su bottega per vendere lana. Insomma, per i piemontesi, il saccheggio del Sud era l'unica risposta a portata di mano, per tentare di superare i guai in cui s'erano messi".

A seguito dell'occupazione piemontese fu immediatamente impedito al Banco delle Due Sicilie (diviso poi in Banco di Napoli e Banco di Sicilia) di rastrellare dal mercato le proprie monete per trasformarle in carta moneta così come previsto dall'ordinamento piemontese, poiché in tal modo i banchi avrebbero potuto emettere carta moneta per un valore di 1200 milioni e avrebbero potuto controllare tutto il mercato finanziario italiano (benché ai due banchi fu consentito di emettere carta moneta ancora per qualche anno). Quell'oro, invece, attraverso apposite manovre passò nelle casse piemontesi.

Tuttavia nella riserva della nuova Banca d'Italia, non risultò esserci tutto l'oro incamerato (si vedano a proposito gli Atti Parlamentari dell'epoca).

Evidentemente parte di questo aveva preso altre vie, che per la maggior parte furono quelle della costituzione e finanziamento di imprese al nord operato da nuove banche del nord che avrebbero investito al nord, ma con gli enormi capitali rastrellati al sud.

Ancora adesso, a ben vedere, il sistema creditizio del meridione risente dell'impostazione che allora si diede. Gli istituti di credito adottano ancora oggi politiche ben diverse fra il nord ed il sud, effettuando la raccolta del risparmio nel meridione e gli investimenti nel settentrione.

Il colpo di grazia all'economia del sud fu dato sommando il debito pubblico piemontese, enorme nel 1859 (lo stato più indebitato d'Europa), all'irrilevante debito pubblico del Regno delle due Sicilie, dotato di un sistema di finanza pubblica che forse rigidamente poco investiva, ma che pochissimo prelevava dalle tasche dei propri sudditi. Il risultato fu che le popolazioni e le imprese del Sud, dovettero sopportare una pressione fiscale enorme, sia per pagare i debiti contratti dal governo Savoia nel periodo preunitario (anche quelli per comprare quei cannoni a canna rigata che permisero la vittoria sull'esercito borbonico), sia i debiti che il governo italiano contrarrà a seguire: esso in una folle corsa all''armamento, caratterizzato da scandali e corruzione, diventò, con i suoi titoli di stato, lo zimbello delle piazze economiche d'Europa.

Scrive ancora lo storico Zitara: "La retorica unitaria, che coprì interessi particolari, non deve trarre in inganno. Le scelte innovative adottate da Cavour, quando furono imposte all'intera Italia, si erano già rivelate fallimentari in Piemonte. A voler insistere su quella strada fu il cinismo politico di Cavour e dei suoi successori, l'uno e gli altri più uomini di banca che veri patrioti. Una modificazione di rotta sarebbe equivalsa a un'autosconfessione. Quando, alle fine, quelle "innovazioni", vennero imposte anche al Sud, ebbero la funzione di un cappio al collo.

Bastò qualche mese perché le articolazioni manifatturiere del paese, che non avevano bisogno di ulteriori allargamenti di mercato per ben funzionare, venissero soffocate.

L'agricoltura, che alimentava il commercio estero, una volta liberata dei vincoli che i Borbone imponevano all'esportazione delle derrate di largo consumo popolare, registrò una crescita smodata e incontrollabile e ci vollero ben venti anni perché i governi sabaudi arrivassero a prostrarla. Da subito, lo Stato unitario fu il peggior nemico che il Sud avesse mai avuto; peggio degli angioini, degli aragonesi, degli spagnoli, degli austriaci, dei francesi, sia i rivoluzionari che gli imperiali".

Per contro una politica di sviluppo, fra mille errori e disastri economici epocali (basti pensare al fallimento della Banca Romana, principale finanziatrice dello stato unitario o allo scandalo Bastogi per l'assegnazione delle commesse ferroviarie), fu attuata solo al Nord mentre il Sud finì per pagare sia le spese della guerra d'annessione, sia i costi divenuti astronomici dell'ammodernamento del settentrione.

Il governo di Torino adottò nei confronti dell'ex Regno di Napoli una politica di mero sfruttamento di tipo "colonialista" tanto da far esclamare al deputato Francesco Noto nella seduta parlamentare del 20 novembre 1861: "Questa è invasione non unione, non annessione! Questo è voler sfruttare la nostra terra come conquista. Il governo di Piemonte vuol trattare le province meridionali come il Cortez ed il Pizarro facevano nel Perú e nel Messico, come gli inglesi nel regno del Bengala".

La politica dissennatamente liberistica del governo unitario portò, peraltro, la neonata e debolissima economia dell'Italia unita a un crack finanziario.

Le grandi società d'affari francesi ed inglesi fecero invece, attraverso i loro mediatori piemontesi, affari d'oro.

Nel 1866, nonostante il considerevole apporto aureo delle banche del sud, la moneta italiana fu costretta al "corso forzoso" cioè fu considerata dalle piazze finanziarie inconvertibile in oro. Segno inequivocabile di uno stato delle finanze disastroso e di un'inflazione stellare. I titoli di stato italiani arrivarono a valere due terzi del valore nominale, quando quelli emessi dal governo borbonico avevano un rendimento medio del 18%.

Ci vorranno molti decenni perché l'Italia postunitaria, dal punto di vista economico, possa riconquistare una qualche credibilità.

L'odierna arretratezza economica del Meridione è figlia di quelle scelte scellerate e di almeno un cinquantennio di politica economica dissennata e assolutamente dimentica dell'ex Regno di Napoli da parte dello stato unitario.

Si dovrà aspettare il periodo fascista per vedere intrapresa una qualche politica di sviluppo del Meridione con un intervento strutturale sul suo territorio attraverso la costruzione di strade, scuole, acquedotti (quello pugliese su tutti), distillerie ed opifici, la ripresa di una politica di bonifica dei fondi agricoli, il completamento di alcune linee ferroviarie come la Foggia-Capo di Leuca, - iniziata da Ferdinando II di Borbone, dimenticata dai governi sabaudi e finalmente terminata da quello fascista.

Ma il danni e i disastri erano già fatti: una vera economia nel sud non esisteva più e le sue forze più giovani e migliori erano emigrate all'estero.

Nonostante gli interventi negli anni '50 del XX secolo con il piano Marshall (peraltro con nuove sperequazioni tra nord e sud), '60 e '70 con la Cassa per il Mezzogiorno e l'aiuto economico dell'Unione Europea ai giorni nostri, il divario che separa il Sud dal resto d'Italia è ancora notevole.

La popolazione dell'ex Regno di Napoli, falcidiata dagli eccidi del periodo del "brigantaggio", stremata da anni di guerra, di devastazioni e nefandezze d'ogni genere, per sopravvivere, darà vita alla grandiosa emigrazione transoceanica degli ultimi decenni dell''800, che continuerà, con una breve inversione di tendenza nel periodo fascista e una diversificazione delle mete che diventeranno il Belgio, la Germania, la Svizzera, fin quasi ai giorni nostri.

Il Sud pagherà, ancora una volta, con il flusso finanziario generato dal lavoro e dal sacrificio degli emigranti meridionali, lo sviluppo dell'Italia industriale.

Ritengo, in conclusione, che sia un diritto delle gente meridionale riappropriarsi di quel pezzo di storia patria che dopo il 1860 le fu strappato e un dovere del corpo insegnanti dello stato favorire un'analisi storica più oggettiva di quei fatti che tanto peso hanno avuto ed hanno ancora nello sviluppo sociale del Paese, anche attraverso una scelta dei testi scolastici più oculata ed imparziale.

La guerra fra il nord ed il sud d'Italia non si combatte più sui campi di battaglia del Volturno, del Garigliano, sugli spalti di Gaeta o nelle campagne infestate dai "briganti", ma non per questo è meno viva; continua ancora oggi sul terreno di una cultura storica retriva e bugiarda che, alimentando una visione del sud "geneticamente" arretrato, produce un'ulteriore frattura tra due "etnie" che non si sono amate mai.

Il dibattito ancora aperto e vivace sull'ipotesi di una Italia federalista, i toni accesi del Partito della Lega Nord, una certa avversione, subdola ma reale, tra la gente del nord e quella del sud, nonostante il "rimescolamento" dovuto all'emigrazione interna, testimoniano quanto queste problematiche, nate nel 1860, siano ancora attualissime.

Oggi l'unità dello stato, in un periodo dove il progresso passa attraverso enti politico-economici sopranazionali come la Comunità Europea, è certamente un valore da salvaguardare, ma al meridione è dovuta una politica ed una attenzione particolari, una politica legata ai suoi effettivi interessi, che valorizzi le sue enormi risorse e assecondi le sue vocazioni, a parziale indennizzo dei disastri e delle ingiustizie che l'unità vi ha apportato.

L'enorme numero di morti che costò l'annessione, i 23 milioni di emigrati dal meridione dell'ultimo secolo, che hanno sommamente contribuito, a costo di immani sforzi, alla realizzazione di un'Italia moderna e vivibile, meritano quel concreto riconoscimento e quel rispetto che per 150 anni lo Stato, attraverso una cultura storica mendace, gli ha negato e che oggi gli eredi della Nazione Napoletana reclamano.

di CARLO COPPOLA
"Controstoria dell'Unità d'Italia"
M.C.E. Editore

Fonte: Cronologia Leonardo