lunedì 5 settembre 2011

La lingua siciliana

Fonte La Sicilia in Rete

Lo studio del dialetto siciliano porta a ricercare le origini della lingua e gli influssi che essa ha subito. Una breve ricerca storica rivela la sua unicità e la sua natura multiculturale.

I diversi popoli, che negli ultimi 2.500 anni si sono susseguiti alla dominazione della Sicilia, hanno lasciato un’impronta indelebile nella lingua e nella cultura siciliana.
La parlata siciliana non deve essere considerata come dialetto ma come lingua a pieno titolo, per due ragioni :è nata con il popolo siciliano, è rimasta intatta nelle sue caratteristiche e peculiarità durante i secoli e gode della propria Grammatica e del proprio Vocabolario.

La lingua siciliana che tuttora si scrive e si parla, è in realtà la lingua degli Aborigeni siciliani.Questi aborigeni sono i Siculi provenienti del Lazio e i Sicani provenienti dalla penisola iberica e dall’Africa, che incontrandosi in Sicilia, hanno amalgamato il loro modo di vita e le loro lingue. Non vanno poi dimenticati gli Elimi, un pacifico popolo di pastori e contadini proveniente dalla Libia.
Fin dall’ottavo secolo avanti Cristo la Sicilia fu sottomessa da onde di invasori dagli idiomi più diversi: Greci, Fenici, Cartaginesi, Unni, Vandali germanici, Goti di Svezia, Arabi, Bizantini, Normanni nonché Stauffer di Svevia. Cui fecero seguito i Romani, gli Angioini, i Savoia, gli Aragonesi, gli Spagnoli e quindi gli Austriaci, i Borboni, i Francesi e persino gli Inglesi. È facile capire in che misura, attraverso questi influssi, la lingua siciliana possa essersi sviluppata arrivando ad essere quella che si parla e si scrive oggi. Il latino incise moltissimo sulle varianti dialettali siciliane, nonostante il greco fosse molto diffuso già due secoli prima della conquista romana.
Con il susseguirsi delle occupazioni, gli usi e i costumi siciliani cambiarono, ma la lingua resto’ immutata nella sua essenzialità anzi si arricchi’ per assimilazione di un infinità di vocaboli derivate dalle varie lingue europee, orientali ed africane introdotte nel puro idioma siculo.

Da lingua semplicemente parlata, la lingua siciliana comincio’ ad essere scritta e ad entrare negli atti notarili e nei documenti ufficiali intorno al 1000.
Federico II di Svevia, nipote di Barbarossa, venne proclamato re di Sicilia ancora giovanissimo. Essendo stato educato molto di più in Sicilia che in Svevia, istintivamente scelse Il dialetto siciliano come lingua nazionale.

Nonostante a corte egli parlasse un idioma esclusivamente franco-normanno, volle che la letteratura scritta e la lingua poetica fossero rappresentate dal siciliano, in quanto allora non esistevano ancora opere letterarie e trattati scientifici su carta. In quel periodo i siciliani stupirono con l’impiego della carta al posto della pergamena e già allora il dialetto sia scritto che parlato non era diverso da quello di oggi.

In questo vivacissimo ambiente culturale infatti, intorno agli anni Trenta del XIII secolo, era sorta la nuova lirica cortese in volgare italiano. Gli autori, legati alla struttura giuridica e
amministrativa del Regno meridionale, trapiantarono nel volgare di Sicilia i modelli della lirica cortese provenzale, allo scopo di mettere a punto una lingua letteraria capace di rispecchiare il prestigio della corte di cui fanno parte.

Cosi’ questa lingua comincio’ ad imporsi, con la sua grammatica, la sua sintassi e la ricchezza dei suoi vocaboli potente nelle espressioni, all’attenzione del mondo culturale.

A partire dal 1250 Con la morte di Federico II e la dissoluzione della corte, l’eredità della scuola siciliana venne raccolta nel nord Italia, specialmente in Toscana, dove si venne a formare una corrente di poeti, i “siculo-toscani”, che in seguito avrebbe dato origine alla scuola del dolce stil novo e alla lingua italiana che si affermò come lingua del popolo italiano, al contrario del siciliano che fu degradato al ruolo di semplice dialetto regionale.

I poeti non erano più originari dell’isola e la Toscana ha ereditato dalla Sicilia il titolo di centro creativo della letteratura italiana. Nonostante ciò persino Petrarca e Dante Alighieri ammisero la preminenza della lingua popolare siciliana come prima lingua letteraria italiana. Un fatto molto importante da precisare, che mentre la lingua e la letteratura italiana si stavano formando, il siciliano ebbe un grandissimo influsso...
(emanuele)

sabato 3 settembre 2011

Il Sud nelle varie ed eventuali

Fonte Onda del Sud

di Lino Patruno
Uno dice: ma con tutto ciò che sta succeden­do, ci mettiamo a par­lare di Sud? Ma per fa­vore. Del Sud non si deve parlare mai. Anche perché, siccome l’Ita­lia è abbonata ai guai, il Sud è finito sempre nelle varie ed even­tuali, se ne parla alla fine se c’è tempo. E del resto, la filosofia è sempre stata quella della locomotiva del Nord: quando la locomo­tiva parte i vagoni acclusi del Sud partono anche loro. Ciò che contava e conta è che cresca il Nord.

Poi magari si scopre che da dieci anni l’Italia non cresce e a nessuno viene in mente di chiedersi se la locomotiva sia sufficiente. Anzi si incolpano i vagoni, troppo pesanti e dannosi, sgancia­moli al loro destino. E a nessuno che salti invece in mente, come i nostri ferrovieri san­no, che a volte conviene mettere la locomotiva in coda per fare meno sforzo. Cioè far crescere l’Italia dove c’è ancóra tutta la crescita ine­spressa, come si farebbe in qualsiasi azienda dove c’è una sacca di produzione da attivare. Il saggio contadino non si mette mica a stremare la solita terra se ne ha un pezzo incolto da far fiorire.

E’ fallito il principio della locomotiva. O quello, come si dice anche, della marea: se sale, sale per tutti. Perché nessuno vuole ammet­tere che quella locomotiva non andrebbe da nessuna parte senza i suoi vagoni. Il Sud ac­quista ancóra il 60 per cento dei prodotti del Nord. Senza il Sud non ci sarebbe il Nord, senza questo Sud non ci sarebbe quel Nord. Ma allora bisogna chiamarlo col suo vero nome, che è colonialismo: non mi fai crescere per non compromettere il tuo benessere, non mi fai crescere per non avere concorrenza in casa. Tranne dire, come in questi giorni ha detto il solito leghista, che tre quattro regioni man­tengono tutta l’Italia. E bisognerebbe tenerne conto, altrimenti salutano (se pure) e se ne vanno per conto loro.

Il leghista non dovrebbe vantarsene, ma fare l’esame di coscienza. Crescere non è pec­cato, per carità. Ma è peccato crescere ai danni degli altri. Soprattutto quando, com’è inevi­tabile, non si cresce più e si dà la colpa agli altri. E se non cresci e devi ridurre il debito, sei costretto a tagliare sempre di più, non potendo compensare con le entrate. In questi giorni l’Italia sta insomma pagando a lacrime e san­gue anche un suo modello che ha mantenuto intatto il divario fra Nord e Sud. E ora che sono crollati i consumi al Sud, i signori del Nord a chi vendono?

Qualsiasi studente di economia sa che, in questa situazione, bisogna allargare la base produttiva: attivare il reparto che produce po­co o coltivare la terra incolta. Cioè mettere il Sud nella condizione di dare un apporto che ora gli è impedito di dare. Perché per essere concorrenziale ne devi avere i mezzi a di­ sposizione. A cominciare dalle infrastrutture: quelle materiali (investiresti mai nella Cala­bria in cui c’è l’autostrada Salerno-Reggio Ca­labria?), quelle immateriali (investiresti mai dove per farti recuperare un credito la giu­stizia civile ci mette dieci anni?), quelle sociali (investiresti mai dove non c’è l’asilo per tuo figlio o dove la criminalità ti taglieggia in­disturbata?).

Tutto questo non dipende dai meridionali, ma dal mitico Stato. Come definiremmo un Paese con un divario simile del 40 per cento fra Nord e Sud? E in cui, nonostante questo, il suddetto Stato, con governi di sinistra e di destra, non ha mai mantenuto l’impegno di destinare al Sud almeno il 45 per cento della sua spesa in investimenti? E in cui i ricorrenti Piani per il Sud svaniscono inesorabilmente di fronte alle urgenze di badare ad altro, magari destinando i soldi per il Sud alle multe dei lattai padani o ai traghettatori del lago di Gar­da?

Ansima la locomotiva del Nord: non hanno più neanche gli spazi per i capannoni, poi li alzano vicino ai fiumi e ai laghi e si prendono purtroppo le alluvioni come in Veneto. E se questa locomotiva da dieci anni ansima, ci si vuol mettere una volta per tutte in testa che soltanto il Sud potrà salvare il Nord e l’Italia anche? Sì, il Sud, anche se sembra una be­stemmia, visto il pregiudizio.

La Germania ha speso ciò che ha speso per l’ex Germania Est (per la cronaca: 50 volte più della Cassa per il Mezzogiorno) ma non l’ha abbandonata al destino di vagone appresso. E a chi obietta indignato che il Sud non dovrebbe parlare visti “tutti i soldi che vi abbiamo dato”, bisogna ricordare che quella spesa non si è mai aggiunta a quella normale (ordinaria) dello Stato, quindi in gran parte è stata una presa in giro. E a chi incalza ancóra più indignato che il Sud ha sprecato, bisogna ricordare che a spen­dere è stato quasi sempre lo Stato. E che nes­suno può scagliare la prima pietra in un Paese che, benché sia pieno di debiti, continua ad aumentare la spesa pubblica ogni anno.

Invece di continuare a dare al Paese im­migrati, il Sud può dare ricchezza per far crescere tutti. Ed è tanto bravo, il Sud, se lo mettano in testa.

da “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 2 settembre 2011

Se il sud si sveglia diciamogli «borbonico»

Fonte La Gazzetta del Mezzogiorno

di LINO PATRUNO
Proprio non ci vogliono stare. Tutti quelli abituati a un Sud dello “sconfittismo”, del “dolorismo”, del “perditismo”, del “lacrimismo”. Appena il Sud alza la testa c’è sùbito qualcuno, anche al Sud, che gli dà sulle mani. Stai buono lì e non ti far venire cattive idee, non vorrai minare l’unità nazionale fondata sulla ricchezza del Nord e sulla sottomissione del Sud. Non vorrai svergognare storici, e meridionalisti anche, che si sono sistemati su poltrone e poltroncine garantendo il silenzio del Sud tranne qualche indignazione da convegno (con gettone di presenza). Non vorrai, non vorrai.

Appena il meridionale s’indigna, puntuale la scomunica: borbonico. A uno magari non gliene importa proprio niente dei Borbone. Come, tutto sommato, di Garibaldi.

Gli importa capire come mai, dopo 150 anni di Italia unita, l’Italia è disunita da un divario inossidabile fra CentroNord e Sud, unico fra tutti i Paesi moderni. Come mai i suoi figli devono continuare a emigrare come sempre nella storia del Sud dopo, appunto, l’unità: perché per i meridionali non c’è mai posto, devono andarsene. Coi bastimenti per terre assai lontane, con le valigie di cartone, ora con trolley e computer. E se chiedi chi ha parenti fuori, si alzano decine di mani.

Allora si pensa: forse i meridionali sono esseri inferiori. No, non funziona anche se piacerebbe, ma poi questi maledetti meridionali vanno al Nord e sono i più bravi di tutti. Tanto che gli dicono: tu non sembri meridionale. Allora forse al Sud c’è il caldo che addormenta: ma ora a Milano fa ancòra più caldo. Allora è possibile che al Sud ci siano condizioni tali per cui i meridionali non possono esprimersi anche volendolo. Diciamo meno strade, meno banche, meno servizi pubblici, meno tecnologie. E se uno si ribella per questo, possiamo definirlo “borbonico”? Che c’azzecca?

Magari questi sudisti prima o poi si arrabbiano davvero a sentirsi dire “porci” dal ministro Bossi, “merdacce mediterranee” dal ministro Calderoli, “cancro” dal ministro Brunetta, “Alì Babà” dal ministro Tremonti. Magari al Sud uno si arrabbia a sentirsi ripetere dalla sinistra che quello del Sud non è un problema del Sud ma un problema nazionale e poi si accorge che l’unica nazionale che conta è quella di Prandelli. Magari al Sud uno s’accorge che la storia che gli hanno raccontato non è poi tutta oro colato e che, come dice lo storico Sergio Romano, ebbene sì ci fu una conquista violenta ma necessaria. E si domanda perché, se necessaria fu, non si vuole ammettere che anche violenta fu, con tutte le conseguenze.

Tutto questo comincia a capire la “gente” del Sud, mentre si sente sempre parlare dei sacrosanti diritti della “gente” del Nord, preoccupata di difendere non la propria miseria come al Sud ma la propria ricchezza: dagli immigrati, dalle tasse, dalla concorrenza (si dovesse mettere in testa anche il Sud di fare da sé). Il Sud che compra ogni anno il 60 per cento dei prodotti del Nord e mai sia smette, con queste minacce di CompraSud. Il Sud cui al tempo della Cassa per il Mezzogiorno (anzi per il Settentrione) il Nord impedì di avere la piccola e media industria e lo sistemò per le feste con l’industria pesante che lo ha mezzo distrutto fra acciaio, chimica, raffinerie. Il Sud cui è stato piazzato il federalismo fiscale del “ciascuno si tiene i suoi soldi” e poi è fregato perché le imprese del Nord che vi operano, le tasse non le pagano al Sud ma al Nord. Il Sud abbagliato con piani da 100 miliardi e poi per l’alta velocità ferroviaria Bari-Napoli, che costa 8 miliardi, gli danno un primo stanziamento di 1,8 miliardi, così finisce come la Salerno-Reggio Calabria in costruzione da 40 anni.

Il Sud che comincia a capire, comincia a rompere le scatole. E quegli imbonitori che gli riempiono la testa sono dei “borbonici”, almeno intimidiamoli tutti perché non li si può fucilare di nuovo come briganti. Questo Sud che il solito signor Salvini, quello che cantava ”senti che puzza, fuggono anche i cani, sono arrivati i napoletani”, dice che il Nord si è stancato di aiutare, l’ultimo aiuto che gli abbiamo dato è il federalismo fiscale che farà essere sempre più ricco il Nord e sempre meno ricco il Sud. Anzi dalle prime avvisaglie sotterrerà di tasse anche loro che si credevano furbi.

E se il Sud, questo è davvero il colmo, comincia a chiedersi come mai tutti i partiti del Sud che stanno nascendo se ne vanno nella coalizione in cui c’è la Lega Nord, allora sùbito ad accusarlo di volere un suo partito fuori dai partiti per spaccare l’Italia. Fino alla madre di tutte le accuse: il Sud vuole nascondere le sue responsabilità. A cominciare da quelle di essersi sempre fatto terrorizzare da chi gli dice ora “borbonico”. Con molti degli accusatori che si sono ingrassati garantendo un Sud che si stesse buono. E invece di capire perché i “basta” del Sud nascano, si agitano ora per impedire che crescano.

venerdì 2 settembre 2011

La guerra segreta dell'Inghilterra all'Italia

Fonte Beppe Grillo

La Gran Bretagna ha avuto un'influenza enorme sulla storia italiana, sull'economia del nostro Paese e sulle vicende politiche interne, almeno a partire dal Risorgimento. Si può dire che il rapporto strettissimo e spesso di dipendenza dell'Italia dalla Gran Bretagna sia iniziato con la nascita dello Stato Unitario nel 1861, e con l'Impresa dei Mille naturalmente è iniziato un anno prima. L'idea di uno Stato Unitario aveva radici interne, ma il progetto subì un'accelerazione quando gli inglesi capirono che attraverso l'apertura del Canale di Suez, progettata dai francesi, l'Italia sarebbe diventata una postazione strategicamente importantissima e quindi mettere le mani sul nostro paese, controllarlo politicamente, e spesso anche militarmente, avrebbe garantito agli inglesi il controllo anche delle rotte commerciali dal Mediterraneo all'estremo Oriente. E quindi la Gran Bretagna diede un colpo di acceleratore al progetto di unità nazionale dell'Italia, finanziando e sostenendo in tutti i modi l'impresa Garibaldina.
Giovanni Fasanella

Intervista a Giovanni Fasanella, giornalista e co-autore de "Il golpe inglese":

150 anni di Unità condizionata
Dalla nascita dello Stato Unitario in poi l'Inghilterra ha sempre avuto un ruolo fondamentale nelle nostre vicende politiche interne e in tutti i passaggi cruciali della storia italiana. L'ha avuto quando Mussolini e il Fascismo presero il potere, grazie anche all'appoggio dei conservatori inglesi; lo ha avuto anche durante il ventennio fascista controllando e condizionando le scelte di una parte, quella più anglofila del regime; l'ha avuto nella caduta poi di Mussolini,organizzando il colpo di stato del 25 luglio; l'ha avuto durante la guerra, nella lotta contro i nazisti e la Repubblica sociale durante l' intero arco della Guerra Fredda e lo ha avuto anche dopo, perché c'è lo zampino inglese anche in molte delle vicende che hanno segnato la storia italiana dell' ultimo ventennio.

Gli inglesi hanno, nel corso dei 150 anni di storia unitaria, costruito delle loro quinte colonne interne attraverso le quali hanno condizionato il corso della politica italiana; avevano un' influenza enorme nel mondo dell'informazione, nel mondo della cultura e dell'industria editoriale, della diplomazia, degli apparati, quindi dentro le nostre Forze Armate e gli stessi Servizi Segreti Italiani, nelle organizzazioni sindacali, nella politica italiana. In tutti questi ambienti gli inglesi avevano costruito una sorta di loro partito che in qualche modo ubbidiva agli ordini di Londra o comunque era particolarmente sensibile agli input che partivano dalla Gran Bretagna.

Ci sono state anche delle fasi caratterizzate da aspri conflitti tra Italia e Gran Bretagna. Questo è successo tutte le volte che l'Italia ha tentato di emanciparsi dai vincoli che derivavano dall'esito della Seconda Guerra Mondiale, perché per i britannici, a differenza degli americani, l'Italia non era un paese che si era liberato dal nazi-fascismo combattendo al fianco degli eserciti alleati, ma era un paese sconfitto in guerra e quindi soggetto alle leggi dei paesi vincitori.

Enrico Mattei e Aldo Moro
Secondo la dottrina britannica, elaborata da Churchill già nella fase finale della Seconda Guerra Mondiale e formalizzata subito dopo, c'erano tre cose che l'Italia non poteva assolutamente fare. La prima: avere, costruire un sistema politico compiutamente democratico, cioè con l'alternarsi al governo di maggioranza e opposizione, per la presenza di un partito comunista, che era il più forte del mondo occidentale; la seconda era pensare autonomamente a una politica della sicurezza; e la terza cosa, la più importante che l'Italia non poteva fare, secondo la dottrina di Churchill, era avere una politica estera autonoma basata su un proprio interesse nazionale. Ogni mossa di politica estera del nostro governo doveva essere concordata con gli inglesi e avere il visto britannico.

Quando l'Italia, nel tentativo di emanciparsi da questa condizione di dipendenza, ha tentato di bypassare quelle regole, sono nati i conflitti più duri con gli inglesi. Fra i tanti personaggi della politica italiana del Secondo Dopoguerra che hanno incarnato un'idea nazionale dell'Italia, cioè di un paese che pur appartenendo ad un sistema di alleanze politico-militare internazionale, qual era l'Alleanza Atlantica alla Nato, non rinunciava ad una propria linea di politica estera autonoma nell'ambito più naturale, che era quello del Mediterraneo.
Tra questi personaggi io vorrei ricordarne due, in particolare Enrico Mattei, che attraverso la sua politica energetica contribuì a fare dell'Italia una delle potenze economiche mondiali, e il suo successore Aldo Moro. Entrambi erano considerati dai britannici dei nemici mortali, dei nemici degli interessi inglesi da eliminare con ogni mezzo.
Enrico Mattei morì in un incidente aereo provocato da un sabotaggio e qualche decennio dopo Aldo Moro morì assassinato dalle Brigate Rosse.

America e Inghilterra non avevano la stessa visione del problema italiano, per gli americani eravamo il paese in cui sviluppare il sistema democratico, per gli inglesi invece il sistema democratico doveva rimanere un sistema sostanzialmente chiuso.
In passaggi delicati della nostra storia, in passaggi anche drammatici, come a cavallo tra il '69 e il 1970, quando Junio Valerio Borghese progettava con l'aiuto inglese un colpo di stato in Italia, gli americani si opposero. E la stessa cosa gli americani fecero quando nella seconda metà degli anni 70, si pose il problema dell'ingresso del partito comunista nel governo italiano. Per gli americani il problema poteva essere superato limitando all'Italia la possibilità di accesso ai segreti Nato più sensibili, per l'Inghilterra invece il problema doveva essere risolto in modo più radicale, addirittura attraverso un golpe che avevano progettato e organizzato nei minimi particolari per un anno intero e che poi lasciarono cadere perché, come dicono gli stessi documenti desecretati della diplomazia britannica, il governo inglese optò per, parole testuali, l'appoggio a una diversa azione eversiva.