lunedì 19 marzo 2012

E il reddito di cittadinanza?

Fonte: Vittorio Longhi Repubblica

Al di là delle uscite infelici sulle “paccate di soldi” – che ti aspetteresti da un leghista della prima ora e non da una docente autorevole di economia – sembra che l’assicurazione sociale per l’impiego (Aspi) non riuscirà a garantire la copertura universalistica promessa dalla ministra Fornero. Molti lavoratori disoccupati e inoccupati, specialmente quelli precari, ne resterebbero esclusi.

Nelle intenzioni il nuovo ammortizzatore sociale vorrebbe andare nella direzione del resto dell’Europa occidentale, dove però esistono forme di sostegno al reddito per chiunque e si chiede un impegno serio a cercare una nuova occupazione.

Se l’obiettivo è l’allineamento all’Europa, non si può evitare di affrontare il tema del reddito di cittadinanza, come da tempo propongono alcuni economisti, sociologi e politici. Su questo fronte in Italia è molto attiva l’associazione Basic Income Network (Bin), che ha scritto una lettera al presidente del Consiglio chiedendo l’introduzione del “reddito minimo garantito incondizionato, ulteriore rispetto a una indennità di disoccupazione generalizzata, affinché si definisca un nuovo diritto sociale”.

Il reddito di cittadinanza pone la questione centrale su cosa siano oggi i diritti sociali – sostiene il Bin – su cosa significhi garanzia di un livello socialmente decoroso di esistenza e della possibilità di scelta e di autodeterminazione dei soggetti sociali.

In effetti il punto è proprio l’autodeterminazione degli individui e l’emancipazione dalla famiglia, favorite dal reddito minimo, mentre in Italia bisogna ancora contare sul welfare familistico, sul sostegno dei genitori in assenza di un sostegno pubblico. Senza contare l’impulso che questo ammortizzatore darebbe al consumo e alla domanda interna.

Fatta eccezione per l’Italia, la Grecia e l’Ungheria, negli altri paesi dell’UE l’intergazione al reddito va dai 400 ai mille euro mensili, oltre alle facilitazioni per la casa, i trasporti, la cultura, la famiglia e i figli.

La domanda che ci si pone in quei contesti è se i sussidi scoraggino la ricerca di lavoro, favorendo l’abuso e l’assistenzialismo. Ma se ci sono buoni servizi per l’impiego che riqualificano e reinseriscono il disoccupato in tempi ragionevoli nel mercato del lavoro – come nei paesi scandinavi, ad esempio – il problema sembra davvero non sussistere.

mercoledì 26 ottobre 2011

Se anche la Bce fa il tifo per il reddito di cittadinanza

Fonte MicroMega

di Giovanni Perazzoli

C’è un punto nella famosa lettera della Bce che non ha suscitato il dovuto interesse. Leggo che insieme all’“accurata revisione delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento dei dipendenti” bisognerà stabilire “un sistema di assicurazione dalla disoccupazione”.

Non voglio parlare adesso delle molte possibili critiche alla lettera (una tra tutte, il fatto che non faccia una parola sull’evasione fiscale italiana, ribadendo così l'orientamento generale che a pagare la crisi non debbano essere coloro che l'hanno provocata). Noto però con stupore che nessuno ha dato il giusto rilievo al passaggio citato sopra.

A proposito del quale, bisogna subito rilevare che esso induce a prendere atto di due fatti. Il primo è che, se si propone di istituire un’assicurazione sulla disoccupazione, evidentemente una simile assicurazione in Italia non c’è. Mentre c'è in Europa.
Il secondo fatto è che, per realizzare questa assicurazione sulla disoccupazione, non mancano i soldi.

Non mi pare poco. Nel momento estremo della crisi, quella stessa lettera della Banca Centrale Europea che consiglia il risparmio all’osso per tenere sotto controllo il debito pubblico, consiglia anche di introdurre in Italia un sussidio di disoccupazione. Il quale, evidentemente, dovrà immaginarsi analogo a quello degli altri paesi europei (dove anche chi non lavora ha un reddito garantito), ovvero corrispondente alle direttive europee sottoscritte e mai applicate dall’Italia (e dalla Grecia). Non credo che la Bce possa infatti proporre qualcosa di contrario o di diverso rispetto alle direttive europee.

Ma perché nessuno ne ha parlato? Certo, non sfugge il contesto drammatico nel quale cade la proposta dell’istituzione di questa “assicurazione sulla disoccupazione”. Tanto meno però deve sfuggire il fatto che, su questo specifico punto, niente il governo abbia “recepito”, e che nulla la sinistra abbia detto, spiegato, chiarito.

Invece, sarebbe essenziale dire, spiegare e chiarire. Anche perché in Italia sorprendentemente pochi sanno di che cosa si tratta, e gli equivoci sono continui. Ad esempio Franco Berardi, su questo sito si chiede con ironia se “la BCE erogherà finalmente un reddito di cittadinanza per tutti i disoccupati europei”; Beppe Grillo in un post dichiara che il suo movimento, come altri movimenti europei, da sempre sostiene il reddito di cittadinanza per i disoccupati. Sono solo due esempi.

Per evitare equivoci controproducenti per l’Italia, meglio allora essere chiari. I disoccupati europei non devono aspettare i banchieri centrali o il movimento indicato da Grillo per avere un “reddito di cittadinanza”, perché hanno già un “reddito di cittadinanza”. In Gran Bretagna la prima formula è del 1911 (National Insurance Act), in Belgio del 1915. La Francia – che è stata tra le ultime nazione ad adottare una forma di reddito di cittadinanza – lo ha istituito ormai più di vent’anni fa (RMI, Revenu minimum d'insertion, ora è stato riformato e migliorato e si chiama RSA). Tutti i paesi europei, ad eccezione di Italia, Grecia e Ungheria, hanno forme di “reddito di cittadinanza”. In generale, queste forme di sussidi sono illimitate nel tempo, con l’unica condizione della ricerca attiva di un lavoro da parte di chi ne usufruisce; ad esse si devono aggiungere altri aiuti per l’alloggio, integrazioni per i redditi sotto una certa soglia etc. (In calce i riferimenti a Wikipedia ). Il sostegno del reddito è, del resto, uno dei pilastri del welfare state, come la scuola, la sanità, la pensione.

Perché allora ci sono dei movimenti europei che chiedono il “reddito di cittadinanza”? Perché questi movimenti vogliono andare oltre quello che già hanno. Infatti, una cosa è il sussidio di disoccupazione, un’altra il reddito universale. Spesso si prende il “reddito di cittadinanza” come un sussidio rivolto al disoccupato; l’idea di questi movimenti è invece intendere il “reddito di cittadinanza” nel senso di un reddito rivolto a tutti, che lavorino o meno. Ma la differenza non deve occultare che le forme di sussidio di disoccupazione o di reddito minimo garantito europee costituiscono di fatto una forma di reddito universale o di cittadinanza perché comunque, per così dire, nessuno resta senza un euro in tasca. Tanto più che a questi sussidi si accede con la maggiore età anche se non si è mai avuta un’occupazione in precedenza.

Tuttavia, il fatto non è il diritto; e l’idea che il sussidio riguardi il disoccupato in cerca di lavoro non è un aspetto neutrale di questo istituto. Ed è per questo che in Europa esistono dei movimenti che vogliono andare oltre il tipo di reddito di cittadinanza come indennità di disoccupazione o integrazione del reddito. Le teorie proposte sono molto interessanti, ma in Italia hanno involontariamente confuso le acque, che erano già torbide per conto loro. Poiché in Italia non è noto che in Europa i disoccupati usufruiscono di una serie di sussidi e di facilitazioni, si può cadere nell’errore di credere che i movimenti per il reddito universale vogliano un sussidio per i disoccupati. Il che non è vero. Anzi, nella formulazione più importante, quella del Basic Income, è vero il contrario. L’idea nuova è che il “reddito di cittadinanza” debba essere pensato non solo per i disoccupati (lo hanno già), ma anche per chi lavora. In generale, l’idea di questi movimenti è che il reddito di cittadinanza debba essere indipendente dal lavoro.

La forma più elaborata e influente di questa teoria politico-economica è quella formulata dal filosofo ed economista belga Philippe van Parijs, dell’università americana di Harvard e della Katholieke Universiteit Leuven (Belgio). Intorno a lui si è creata anche una rete internazionale molto attiva, formata da economisti, uomini politici, filosofi, studiosi attivisti (Bien http://www.basicincome.org/bien/. In Italia, invece esiste il Bin http://www.bin-italia.org/).

Qui non posso illustrare la teoria di van Parijs. Ma è importante notare, per avere un’idea del dibattito sul welfare state in Europa, che uno degli argomenti da lui utilizzati a favore del Basic Income – ovvero del reddito universale distribuito a tutti, lavoratori o disoccupati – è che esso potrebbe risolvere una delle distorsioni che si imputano alle forme europee di reddito minimo garantito: la “trappola assistenziale”.

Di che cosa si tratta? La disoccupazione sarebbe prodotta in Europa, oltre che dalla crisi e dalla globalizzazione, proprio dai sussidi di disoccupazione. Il disoccupato europeo (non italiano, ovviamente, che ha solo la famiglia, perché un vero welfare in Italia non c'è) può essere incentivato a non lavorare dal sussidio. In effetti, in molti casi, può non essere conveniente da parte del disoccupato cercare un lavoro, visti gli aiuti a cui si ha diritto – sussidio disoccupazione, sostegno economico per i figli, alloggio gratuito, esenzione per le spese sanitarie, contributi per i trasporti, il riscaldamento, il telefono ecc. In particolare, il sussidio si trasformerebbe in un incentivo a non lavorare per le donne, già gravate dalla cura della famiglia. Di fatto, specialmente per i lavori meno qualificati, le somme percepite finiscono per essere equivalenti a quelle del sussidio: è stato calcolato che in Germania la differenza tra un basso salario e il sussidio sarebbe di circa 100 euro.

Ora, secondo van Parijs, un’allocazione universale uguale per tutti (seguita da una tassazione per fascia reddito che tolga quanto anche ai ricchi viene dato con il Basic Income) disinnescherebbe la trappola assistenziale perché invertirebbe la direzione dell’incentivo: lavorare non comporterebbe la perdita dei vantaggi che si hanno non lavorando. Facciamo l’ipostesi di un reddito minimo corrisposto a tutti di 1000 euro. Ricchi e poveri percepirebbero tutti mille euro, salvo il fatto che i più ricchi verrebbero tassati di mille euro (quello che prendono lo restituiscono con le tasse). La differenza rispetto alle forme di reddito garantito europee è che non ci sarebbe più il disoccupato “assistito”; lavorare e quanto lavorare sarebbe una scelta, prevedendosi anche il caso di chi, rinunciando a un certo livello di consumi, preferisca non lavorare (per avere, ad esempio, tempo libero o per dedicarsi ai figli) o preferisce lavori meno remunerati (ad esempio, vicini al volontariato ecc.). Nel caso di una donna, tornare al lavoro dopo avere avuto un figlio non sarebbe disincentivato dal venire meno del sussidio, ma verrebbe al contrario incentivato grazie alla più alta retribuzione.

I costi? Secondo van Parijs dovrebbero essere inferiori a quelli che servono attualmente per finanziare in media il welfare europeo, soprattutto perché il suo Basic Income prevede l’azzerarsi di tutti gli altri sussidi e aiuti. Uno dei libri più importanti di van Parjis – Real Freedom for All: What (if anything) can justify capitalism?, Clarendon Press, 1995 – ha in copertina un tizio che se la spassa sul windsurf. L’autore racconta che la scelta della copertina riprende il caso su cui aveva discusso con il filosofo americano John Rawls: una società giusta può prevedere la libertà di scegliere di non lavorare, per passare il tempo a fare windsurf su una spiaggia assolata?

Il Basic income, secondo van Parijs, dovrebbe contribuire a modificare profondamente l’incidenza dell'esclusione dal lavoro, della povertà e rendere la società più giusta non solo dal punto di vista della distribuzione delle risorse, ma anche, ed è questo l’aspetto più importante, dal punto di vista della libertà delle scelte. La Bocconi ha pubblicato in traduzione italiana nel 2006 un bel libro di van Parijs, Il reddito minimo universale, dove si possono trovare tutte le informazioni sul tema.

Ogni lettore italiano percepisce immediatamente la distanza siderale tra questi problemi e quelli italiani. Quanti di noi avrebbero mai sospettato che il disoccupato potesse stare meglio dell’occupato? E invece, anche se può stupire, in Germania, Francia, Olanda ecc., il difetto (vero o presunto) di incentivare la disoccupazione attribuito al reddito di cittadinanza (o come lo si voglia chiamare) è uno dei temi chiave del dibattito politico sul welfare state. E comunque, la destra non propone di cancellarlo, ma di ridurne l'impatto sulla disoccupazione, inducendo il disoccupato ad accettare il lavoro offerto dall’ufficio di collocamento, anche se questo corrisponde solo in parte alla propria qualifica professionale. Secondo la riforma del governo conservatore britannico di Cameron, il disoccupato che rifiutasse per tre volte un lavoro ragionevolmente vicino alla sua formazione professionale resterebbe tre anni senza sussidio. È facile capire che proprio questa politica restrittiva ha innescato la crescita di movimenti più radicali che intendono svincolare del tutto il reddito minimo garantito dal lavoro. E la posizione di van Parijs è estremamente interessante, soprattutto nella crisi attuale.

Complessivamente, restando al presente, il reddito di cittadinanza esistente in Europa ha, comunque, più vantaggi che svantaggi; non è infatti solo un rimedio “alla povertà” (il fatto che in Italia di questi temi si discuta sotto il profilo del “rimedio alla povertà” è un indicatore quasi infallibile della confusione regnate), ma è un istituto che accresce la disposizione al rischio di impresa (perché crea una rete di protezione), che rinsalda il legame sociale e nazionale (come notava Eric Hobsbawm ne Il secolo breve), che abbatte il clientelismo e la classe politica che da esso si alimenta.

Non da ultimo, la flessibilità sul lavoro è ben altra cosa se esiste una rete seria di protezione (ma deve essere seria e non un surrogato di Europa, come lo sono alcune attuali leggi regionali). Si potrebbe allora anche immaginare una società diversa da quella che viene difesa solo perché non si ha davanti un'alternativa. La diffusione in Europa del movimento per il “reddito universale” avviene sulla base di anni di sussidi che non sono rivolti a chi ha perso il lavoro, ma a chi non lavora o, pur lavorando, non guadagna abbastanza.

Perché guardare indietro e non avanti? In fondo, una società ingessata nella quale l’operaio farà per tutta la vita l’operaio, e deve anche ringraziare il parroco o l’assessore che lo ha raccomandato perché venisse assunto, non è proprio un modello di società giusta e libera. Il posto fisso in un mondo a sua volta fisso è una condanna mascherata, che penalizza i più deboli: trovato il posto, guai a te se non ti comporti bene e non ti metti in riga (devi pure pagare le rate del mutuo). I conflitti sul lavoro? Le donne che devono sopportare il superiore che ci prova? Sono situazioni che non hanno via di scampo, tranne ricorre all’avvocato e al tribunale in caso di licenziamento. Ma questa rappresentazione della società, che è in fondo frutto dell’immaginario sovietico della vecchia sinistra (uno mondo, del resto, speculare a quello del film Pleasantville, stile anni ’50, in cui ogni individuo “è” per il ruolo che ha, secondo un legge inesorabile, sempre presupposta come giusta, che distingue chi è in alto e chi è in basso nella gerarchia sociale), ha impedito fin qui in Italia l’adozione di una forma di assicurazione sulla disoccupazione sul modello delle socialdemocrazie europee (che erano “piccolo borghesi”). Una rete solida darebbe a tutti invece una di quelle opportunità che sono il metro di una società giusta e libera: la possibilità di cambiare vita (che molto spesso significa la possibilità di migliorare le proprie condizioni di partenze).

È curioso che da noi si continui ad ignorare una realtà europea esistente, tutt’altro che utopistica (perché rodata in mille modi e difesa nella sua sostanza sia da destra che da sinistra), e così normale e consueta che ce la viene a proporre addirittura il banchiere centrale europeo.

Spero di aver dato un’idea di quello che in margine alla lettera della Bce non è stato detto.

lunedì 24 ottobre 2011

Ferie forzate

Non sono scomparso e non ho perso lo spirito iniziale che ha dato vita a questo blog.
Sono stato quasi un mese senza poter scrivere e linkare articoli di altri siti perchè il mio computer si è rotto e ho dovuto comprarne uno nuovo.

lunedì 5 settembre 2011

La lingua siciliana

Fonte La Sicilia in Rete

Lo studio del dialetto siciliano porta a ricercare le origini della lingua e gli influssi che essa ha subito. Una breve ricerca storica rivela la sua unicità e la sua natura multiculturale.

I diversi popoli, che negli ultimi 2.500 anni si sono susseguiti alla dominazione della Sicilia, hanno lasciato un’impronta indelebile nella lingua e nella cultura siciliana.
La parlata siciliana non deve essere considerata come dialetto ma come lingua a pieno titolo, per due ragioni :è nata con il popolo siciliano, è rimasta intatta nelle sue caratteristiche e peculiarità durante i secoli e gode della propria Grammatica e del proprio Vocabolario.

La lingua siciliana che tuttora si scrive e si parla, è in realtà la lingua degli Aborigeni siciliani.Questi aborigeni sono i Siculi provenienti del Lazio e i Sicani provenienti dalla penisola iberica e dall’Africa, che incontrandosi in Sicilia, hanno amalgamato il loro modo di vita e le loro lingue. Non vanno poi dimenticati gli Elimi, un pacifico popolo di pastori e contadini proveniente dalla Libia.
Fin dall’ottavo secolo avanti Cristo la Sicilia fu sottomessa da onde di invasori dagli idiomi più diversi: Greci, Fenici, Cartaginesi, Unni, Vandali germanici, Goti di Svezia, Arabi, Bizantini, Normanni nonché Stauffer di Svevia. Cui fecero seguito i Romani, gli Angioini, i Savoia, gli Aragonesi, gli Spagnoli e quindi gli Austriaci, i Borboni, i Francesi e persino gli Inglesi. È facile capire in che misura, attraverso questi influssi, la lingua siciliana possa essersi sviluppata arrivando ad essere quella che si parla e si scrive oggi. Il latino incise moltissimo sulle varianti dialettali siciliane, nonostante il greco fosse molto diffuso già due secoli prima della conquista romana.
Con il susseguirsi delle occupazioni, gli usi e i costumi siciliani cambiarono, ma la lingua resto’ immutata nella sua essenzialità anzi si arricchi’ per assimilazione di un infinità di vocaboli derivate dalle varie lingue europee, orientali ed africane introdotte nel puro idioma siculo.

Da lingua semplicemente parlata, la lingua siciliana comincio’ ad essere scritta e ad entrare negli atti notarili e nei documenti ufficiali intorno al 1000.
Federico II di Svevia, nipote di Barbarossa, venne proclamato re di Sicilia ancora giovanissimo. Essendo stato educato molto di più in Sicilia che in Svevia, istintivamente scelse Il dialetto siciliano come lingua nazionale.

Nonostante a corte egli parlasse un idioma esclusivamente franco-normanno, volle che la letteratura scritta e la lingua poetica fossero rappresentate dal siciliano, in quanto allora non esistevano ancora opere letterarie e trattati scientifici su carta. In quel periodo i siciliani stupirono con l’impiego della carta al posto della pergamena e già allora il dialetto sia scritto che parlato non era diverso da quello di oggi.

In questo vivacissimo ambiente culturale infatti, intorno agli anni Trenta del XIII secolo, era sorta la nuova lirica cortese in volgare italiano. Gli autori, legati alla struttura giuridica e
amministrativa del Regno meridionale, trapiantarono nel volgare di Sicilia i modelli della lirica cortese provenzale, allo scopo di mettere a punto una lingua letteraria capace di rispecchiare il prestigio della corte di cui fanno parte.

Cosi’ questa lingua comincio’ ad imporsi, con la sua grammatica, la sua sintassi e la ricchezza dei suoi vocaboli potente nelle espressioni, all’attenzione del mondo culturale.

A partire dal 1250 Con la morte di Federico II e la dissoluzione della corte, l’eredità della scuola siciliana venne raccolta nel nord Italia, specialmente in Toscana, dove si venne a formare una corrente di poeti, i “siculo-toscani”, che in seguito avrebbe dato origine alla scuola del dolce stil novo e alla lingua italiana che si affermò come lingua del popolo italiano, al contrario del siciliano che fu degradato al ruolo di semplice dialetto regionale.

I poeti non erano più originari dell’isola e la Toscana ha ereditato dalla Sicilia il titolo di centro creativo della letteratura italiana. Nonostante ciò persino Petrarca e Dante Alighieri ammisero la preminenza della lingua popolare siciliana come prima lingua letteraria italiana. Un fatto molto importante da precisare, che mentre la lingua e la letteratura italiana si stavano formando, il siciliano ebbe un grandissimo influsso...
(emanuele)

sabato 3 settembre 2011

Il Sud nelle varie ed eventuali

Fonte Onda del Sud

di Lino Patruno
Uno dice: ma con tutto ciò che sta succeden­do, ci mettiamo a par­lare di Sud? Ma per fa­vore. Del Sud non si deve parlare mai. Anche perché, siccome l’Ita­lia è abbonata ai guai, il Sud è finito sempre nelle varie ed even­tuali, se ne parla alla fine se c’è tempo. E del resto, la filosofia è sempre stata quella della locomotiva del Nord: quando la locomo­tiva parte i vagoni acclusi del Sud partono anche loro. Ciò che contava e conta è che cresca il Nord.

Poi magari si scopre che da dieci anni l’Italia non cresce e a nessuno viene in mente di chiedersi se la locomotiva sia sufficiente. Anzi si incolpano i vagoni, troppo pesanti e dannosi, sgancia­moli al loro destino. E a nessuno che salti invece in mente, come i nostri ferrovieri san­no, che a volte conviene mettere la locomotiva in coda per fare meno sforzo. Cioè far crescere l’Italia dove c’è ancóra tutta la crescita ine­spressa, come si farebbe in qualsiasi azienda dove c’è una sacca di produzione da attivare. Il saggio contadino non si mette mica a stremare la solita terra se ne ha un pezzo incolto da far fiorire.

E’ fallito il principio della locomotiva. O quello, come si dice anche, della marea: se sale, sale per tutti. Perché nessuno vuole ammet­tere che quella locomotiva non andrebbe da nessuna parte senza i suoi vagoni. Il Sud ac­quista ancóra il 60 per cento dei prodotti del Nord. Senza il Sud non ci sarebbe il Nord, senza questo Sud non ci sarebbe quel Nord. Ma allora bisogna chiamarlo col suo vero nome, che è colonialismo: non mi fai crescere per non compromettere il tuo benessere, non mi fai crescere per non avere concorrenza in casa. Tranne dire, come in questi giorni ha detto il solito leghista, che tre quattro regioni man­tengono tutta l’Italia. E bisognerebbe tenerne conto, altrimenti salutano (se pure) e se ne vanno per conto loro.

Il leghista non dovrebbe vantarsene, ma fare l’esame di coscienza. Crescere non è pec­cato, per carità. Ma è peccato crescere ai danni degli altri. Soprattutto quando, com’è inevi­tabile, non si cresce più e si dà la colpa agli altri. E se non cresci e devi ridurre il debito, sei costretto a tagliare sempre di più, non potendo compensare con le entrate. In questi giorni l’Italia sta insomma pagando a lacrime e san­gue anche un suo modello che ha mantenuto intatto il divario fra Nord e Sud. E ora che sono crollati i consumi al Sud, i signori del Nord a chi vendono?

Qualsiasi studente di economia sa che, in questa situazione, bisogna allargare la base produttiva: attivare il reparto che produce po­co o coltivare la terra incolta. Cioè mettere il Sud nella condizione di dare un apporto che ora gli è impedito di dare. Perché per essere concorrenziale ne devi avere i mezzi a di­ sposizione. A cominciare dalle infrastrutture: quelle materiali (investiresti mai nella Cala­bria in cui c’è l’autostrada Salerno-Reggio Ca­labria?), quelle immateriali (investiresti mai dove per farti recuperare un credito la giu­stizia civile ci mette dieci anni?), quelle sociali (investiresti mai dove non c’è l’asilo per tuo figlio o dove la criminalità ti taglieggia in­disturbata?).

Tutto questo non dipende dai meridionali, ma dal mitico Stato. Come definiremmo un Paese con un divario simile del 40 per cento fra Nord e Sud? E in cui, nonostante questo, il suddetto Stato, con governi di sinistra e di destra, non ha mai mantenuto l’impegno di destinare al Sud almeno il 45 per cento della sua spesa in investimenti? E in cui i ricorrenti Piani per il Sud svaniscono inesorabilmente di fronte alle urgenze di badare ad altro, magari destinando i soldi per il Sud alle multe dei lattai padani o ai traghettatori del lago di Gar­da?

Ansima la locomotiva del Nord: non hanno più neanche gli spazi per i capannoni, poi li alzano vicino ai fiumi e ai laghi e si prendono purtroppo le alluvioni come in Veneto. E se questa locomotiva da dieci anni ansima, ci si vuol mettere una volta per tutte in testa che soltanto il Sud potrà salvare il Nord e l’Italia anche? Sì, il Sud, anche se sembra una be­stemmia, visto il pregiudizio.

La Germania ha speso ciò che ha speso per l’ex Germania Est (per la cronaca: 50 volte più della Cassa per il Mezzogiorno) ma non l’ha abbandonata al destino di vagone appresso. E a chi obietta indignato che il Sud non dovrebbe parlare visti “tutti i soldi che vi abbiamo dato”, bisogna ricordare che quella spesa non si è mai aggiunta a quella normale (ordinaria) dello Stato, quindi in gran parte è stata una presa in giro. E a chi incalza ancóra più indignato che il Sud ha sprecato, bisogna ricordare che a spen­dere è stato quasi sempre lo Stato. E che nes­suno può scagliare la prima pietra in un Paese che, benché sia pieno di debiti, continua ad aumentare la spesa pubblica ogni anno.

Invece di continuare a dare al Paese im­migrati, il Sud può dare ricchezza per far crescere tutti. Ed è tanto bravo, il Sud, se lo mettano in testa.

da “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 2 settembre 2011

Se il sud si sveglia diciamogli «borbonico»

Fonte La Gazzetta del Mezzogiorno

di LINO PATRUNO
Proprio non ci vogliono stare. Tutti quelli abituati a un Sud dello “sconfittismo”, del “dolorismo”, del “perditismo”, del “lacrimismo”. Appena il Sud alza la testa c’è sùbito qualcuno, anche al Sud, che gli dà sulle mani. Stai buono lì e non ti far venire cattive idee, non vorrai minare l’unità nazionale fondata sulla ricchezza del Nord e sulla sottomissione del Sud. Non vorrai svergognare storici, e meridionalisti anche, che si sono sistemati su poltrone e poltroncine garantendo il silenzio del Sud tranne qualche indignazione da convegno (con gettone di presenza). Non vorrai, non vorrai.

Appena il meridionale s’indigna, puntuale la scomunica: borbonico. A uno magari non gliene importa proprio niente dei Borbone. Come, tutto sommato, di Garibaldi.

Gli importa capire come mai, dopo 150 anni di Italia unita, l’Italia è disunita da un divario inossidabile fra CentroNord e Sud, unico fra tutti i Paesi moderni. Come mai i suoi figli devono continuare a emigrare come sempre nella storia del Sud dopo, appunto, l’unità: perché per i meridionali non c’è mai posto, devono andarsene. Coi bastimenti per terre assai lontane, con le valigie di cartone, ora con trolley e computer. E se chiedi chi ha parenti fuori, si alzano decine di mani.

Allora si pensa: forse i meridionali sono esseri inferiori. No, non funziona anche se piacerebbe, ma poi questi maledetti meridionali vanno al Nord e sono i più bravi di tutti. Tanto che gli dicono: tu non sembri meridionale. Allora forse al Sud c’è il caldo che addormenta: ma ora a Milano fa ancòra più caldo. Allora è possibile che al Sud ci siano condizioni tali per cui i meridionali non possono esprimersi anche volendolo. Diciamo meno strade, meno banche, meno servizi pubblici, meno tecnologie. E se uno si ribella per questo, possiamo definirlo “borbonico”? Che c’azzecca?

Magari questi sudisti prima o poi si arrabbiano davvero a sentirsi dire “porci” dal ministro Bossi, “merdacce mediterranee” dal ministro Calderoli, “cancro” dal ministro Brunetta, “Alì Babà” dal ministro Tremonti. Magari al Sud uno si arrabbia a sentirsi ripetere dalla sinistra che quello del Sud non è un problema del Sud ma un problema nazionale e poi si accorge che l’unica nazionale che conta è quella di Prandelli. Magari al Sud uno s’accorge che la storia che gli hanno raccontato non è poi tutta oro colato e che, come dice lo storico Sergio Romano, ebbene sì ci fu una conquista violenta ma necessaria. E si domanda perché, se necessaria fu, non si vuole ammettere che anche violenta fu, con tutte le conseguenze.

Tutto questo comincia a capire la “gente” del Sud, mentre si sente sempre parlare dei sacrosanti diritti della “gente” del Nord, preoccupata di difendere non la propria miseria come al Sud ma la propria ricchezza: dagli immigrati, dalle tasse, dalla concorrenza (si dovesse mettere in testa anche il Sud di fare da sé). Il Sud che compra ogni anno il 60 per cento dei prodotti del Nord e mai sia smette, con queste minacce di CompraSud. Il Sud cui al tempo della Cassa per il Mezzogiorno (anzi per il Settentrione) il Nord impedì di avere la piccola e media industria e lo sistemò per le feste con l’industria pesante che lo ha mezzo distrutto fra acciaio, chimica, raffinerie. Il Sud cui è stato piazzato il federalismo fiscale del “ciascuno si tiene i suoi soldi” e poi è fregato perché le imprese del Nord che vi operano, le tasse non le pagano al Sud ma al Nord. Il Sud abbagliato con piani da 100 miliardi e poi per l’alta velocità ferroviaria Bari-Napoli, che costa 8 miliardi, gli danno un primo stanziamento di 1,8 miliardi, così finisce come la Salerno-Reggio Calabria in costruzione da 40 anni.

Il Sud che comincia a capire, comincia a rompere le scatole. E quegli imbonitori che gli riempiono la testa sono dei “borbonici”, almeno intimidiamoli tutti perché non li si può fucilare di nuovo come briganti. Questo Sud che il solito signor Salvini, quello che cantava ”senti che puzza, fuggono anche i cani, sono arrivati i napoletani”, dice che il Nord si è stancato di aiutare, l’ultimo aiuto che gli abbiamo dato è il federalismo fiscale che farà essere sempre più ricco il Nord e sempre meno ricco il Sud. Anzi dalle prime avvisaglie sotterrerà di tasse anche loro che si credevano furbi.

E se il Sud, questo è davvero il colmo, comincia a chiedersi come mai tutti i partiti del Sud che stanno nascendo se ne vanno nella coalizione in cui c’è la Lega Nord, allora sùbito ad accusarlo di volere un suo partito fuori dai partiti per spaccare l’Italia. Fino alla madre di tutte le accuse: il Sud vuole nascondere le sue responsabilità. A cominciare da quelle di essersi sempre fatto terrorizzare da chi gli dice ora “borbonico”. Con molti degli accusatori che si sono ingrassati garantendo un Sud che si stesse buono. E invece di capire perché i “basta” del Sud nascano, si agitano ora per impedire che crescano.

venerdì 2 settembre 2011

La guerra segreta dell'Inghilterra all'Italia

Fonte Beppe Grillo

La Gran Bretagna ha avuto un'influenza enorme sulla storia italiana, sull'economia del nostro Paese e sulle vicende politiche interne, almeno a partire dal Risorgimento. Si può dire che il rapporto strettissimo e spesso di dipendenza dell'Italia dalla Gran Bretagna sia iniziato con la nascita dello Stato Unitario nel 1861, e con l'Impresa dei Mille naturalmente è iniziato un anno prima. L'idea di uno Stato Unitario aveva radici interne, ma il progetto subì un'accelerazione quando gli inglesi capirono che attraverso l'apertura del Canale di Suez, progettata dai francesi, l'Italia sarebbe diventata una postazione strategicamente importantissima e quindi mettere le mani sul nostro paese, controllarlo politicamente, e spesso anche militarmente, avrebbe garantito agli inglesi il controllo anche delle rotte commerciali dal Mediterraneo all'estremo Oriente. E quindi la Gran Bretagna diede un colpo di acceleratore al progetto di unità nazionale dell'Italia, finanziando e sostenendo in tutti i modi l'impresa Garibaldina.
Giovanni Fasanella

Intervista a Giovanni Fasanella, giornalista e co-autore de "Il golpe inglese":

150 anni di Unità condizionata
Dalla nascita dello Stato Unitario in poi l'Inghilterra ha sempre avuto un ruolo fondamentale nelle nostre vicende politiche interne e in tutti i passaggi cruciali della storia italiana. L'ha avuto quando Mussolini e il Fascismo presero il potere, grazie anche all'appoggio dei conservatori inglesi; lo ha avuto anche durante il ventennio fascista controllando e condizionando le scelte di una parte, quella più anglofila del regime; l'ha avuto nella caduta poi di Mussolini,organizzando il colpo di stato del 25 luglio; l'ha avuto durante la guerra, nella lotta contro i nazisti e la Repubblica sociale durante l' intero arco della Guerra Fredda e lo ha avuto anche dopo, perché c'è lo zampino inglese anche in molte delle vicende che hanno segnato la storia italiana dell' ultimo ventennio.

Gli inglesi hanno, nel corso dei 150 anni di storia unitaria, costruito delle loro quinte colonne interne attraverso le quali hanno condizionato il corso della politica italiana; avevano un' influenza enorme nel mondo dell'informazione, nel mondo della cultura e dell'industria editoriale, della diplomazia, degli apparati, quindi dentro le nostre Forze Armate e gli stessi Servizi Segreti Italiani, nelle organizzazioni sindacali, nella politica italiana. In tutti questi ambienti gli inglesi avevano costruito una sorta di loro partito che in qualche modo ubbidiva agli ordini di Londra o comunque era particolarmente sensibile agli input che partivano dalla Gran Bretagna.

Ci sono state anche delle fasi caratterizzate da aspri conflitti tra Italia e Gran Bretagna. Questo è successo tutte le volte che l'Italia ha tentato di emanciparsi dai vincoli che derivavano dall'esito della Seconda Guerra Mondiale, perché per i britannici, a differenza degli americani, l'Italia non era un paese che si era liberato dal nazi-fascismo combattendo al fianco degli eserciti alleati, ma era un paese sconfitto in guerra e quindi soggetto alle leggi dei paesi vincitori.

Enrico Mattei e Aldo Moro
Secondo la dottrina britannica, elaborata da Churchill già nella fase finale della Seconda Guerra Mondiale e formalizzata subito dopo, c'erano tre cose che l'Italia non poteva assolutamente fare. La prima: avere, costruire un sistema politico compiutamente democratico, cioè con l'alternarsi al governo di maggioranza e opposizione, per la presenza di un partito comunista, che era il più forte del mondo occidentale; la seconda era pensare autonomamente a una politica della sicurezza; e la terza cosa, la più importante che l'Italia non poteva fare, secondo la dottrina di Churchill, era avere una politica estera autonoma basata su un proprio interesse nazionale. Ogni mossa di politica estera del nostro governo doveva essere concordata con gli inglesi e avere il visto britannico.

Quando l'Italia, nel tentativo di emanciparsi da questa condizione di dipendenza, ha tentato di bypassare quelle regole, sono nati i conflitti più duri con gli inglesi. Fra i tanti personaggi della politica italiana del Secondo Dopoguerra che hanno incarnato un'idea nazionale dell'Italia, cioè di un paese che pur appartenendo ad un sistema di alleanze politico-militare internazionale, qual era l'Alleanza Atlantica alla Nato, non rinunciava ad una propria linea di politica estera autonoma nell'ambito più naturale, che era quello del Mediterraneo.
Tra questi personaggi io vorrei ricordarne due, in particolare Enrico Mattei, che attraverso la sua politica energetica contribuì a fare dell'Italia una delle potenze economiche mondiali, e il suo successore Aldo Moro. Entrambi erano considerati dai britannici dei nemici mortali, dei nemici degli interessi inglesi da eliminare con ogni mezzo.
Enrico Mattei morì in un incidente aereo provocato da un sabotaggio e qualche decennio dopo Aldo Moro morì assassinato dalle Brigate Rosse.

America e Inghilterra non avevano la stessa visione del problema italiano, per gli americani eravamo il paese in cui sviluppare il sistema democratico, per gli inglesi invece il sistema democratico doveva rimanere un sistema sostanzialmente chiuso.
In passaggi delicati della nostra storia, in passaggi anche drammatici, come a cavallo tra il '69 e il 1970, quando Junio Valerio Borghese progettava con l'aiuto inglese un colpo di stato in Italia, gli americani si opposero. E la stessa cosa gli americani fecero quando nella seconda metà degli anni 70, si pose il problema dell'ingresso del partito comunista nel governo italiano. Per gli americani il problema poteva essere superato limitando all'Italia la possibilità di accesso ai segreti Nato più sensibili, per l'Inghilterra invece il problema doveva essere risolto in modo più radicale, addirittura attraverso un golpe che avevano progettato e organizzato nei minimi particolari per un anno intero e che poi lasciarono cadere perché, come dicono gli stessi documenti desecretati della diplomazia britannica, il governo inglese optò per, parole testuali, l'appoggio a una diversa azione eversiva.